Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Contratto a termine per ragioni sostitutive
Nullo il contratto di apprendistato se non viene svolta alcuna attività formativa
Stress psicologico da timore di contrarre una malattia da esposizione all'amianto e risarcimento di danno morale ed esistenziale
Infortunio sul lavoro e carenza di formazione e informazione sui rischi
Malattia da mobbing indennizzabile dall'Inail

Contratto a termine per ragioni sostitutive

Cass. Sez. Lav. 20 maggio 2020, n. 9200

Pres. Esposito; Rel. Consigliere Esposito; Ric. C.C.; Controric. P.I:;

Lavoro subordinato – Contratto a termine – Esigenze sostitutive – Requisiti di legittimità del termine apposto al contratto – Indicazione nominativa dei lavoratori da sostituire – Non necessità in organizzazioni complesse – Riferimento a funzioni scoperte, ambito territoriale e durata – Sufficienza

In tema di assunzioni a termine di lavoratori subordinati per ragioni di carattere sostitutivo, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 2009, con cui è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2, l'onere di specificazione delle predette ragioni è correlato alla finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell'apposizione del termine e l'immodificabilità della stessa nel corso del rapporto. Pertanto, nelle situazioni aziendali complesse, in cui la sostituzione non è riferita ad una singola persona ma ad una funzione produttiva specifica, occasionalmente scoperta, l'apposizione del termine deve considerarsi legittima se l'enunciazione dell'esigenza di sostituire lavoratori assenti - da sola insufficiente ad assolvere l'onere di specificazione delle ragioni stesse - risulti integrata dall'indicazione di elementi ulteriori (quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di lavoro) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità della sussistenza del prospettato presupposto di legittimità.
NOTA
Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Napoli, in riforma della decisione del giudice di prime cure, aveva rigettato la domanda della lavoratrice volta ad ottenere la dichiarazione di nullità del termine apposto al proprio contratto di lavoro, giustificato con esigenze di carattere sostitutivo legate alla necessità di sostituire, per un periodo di tempo determinato di tre mesi e mezzo, non uno o più specifici lavoratori identificati nominativamente ma del personale assente identificato attraverso il rinvio alla funzione produttiva e al luogo di lavoro.
Sul punto la Corte territoriale aveva rilevato che la società datrice di lavoro aveva sufficientemente specificato gli elementi che giustificavano l'apposizione del termine e che, pertanto, lo stesso doveva essere ritenuto legittimamente apposto. E infatti, la Corte d'Appello rilevava che erano stati specificati nel contratto della lavoratrice la mansione da svolgere, l'ambito territoriale e il luogo della prestazione.
A ciò si aggiungeva, sempre secondo la Corte, che la società datrice di lavoro aveva provato in giudizio il fatto che i termini non fossero riferibili a carenze croniche di organico ma ad esigenze sostitutive temporanee, avendo prodotto in giudizio il prospetto delle assenze del personale a termine e del personale a tempo indeterminato per il periodo rilevante ai fini di causa.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la lavoratrice sostenendo che il contratto a termine fosse privo degli elementi necessari affinché lo stesso potesse essere considerato legittimo in quanto gli elementi indicati non permettevano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire e le ragioni della loro assenza.
La Suprema Corte ha considerato il motivo infondato e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha ribadito un proprio costante orientamento secondo il quale nelle realtà aziendali complesse, laddove l'esigenza di sostituzione sia riconducibile non ad una singola persona ma ad una intera funzione produttiva, occasionalmente scoperta, l'apposizione del termine può essere ritenuta legittima laddove la mera indicazione dell'esigenza di sostituire lavoratori assenti - in genere insufficiente per assolvere i requisiti di specificità necessari - risulti integrata da elementi ulteriori, quali l'ambito territoriale di riferimento e le mansioni del lavoratore da sostituire, che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire anche se non identificati nominativamente e permettano di verificare l'effettiva esistenza dei presupposti di legittimità. Ciò in considerazione della funzione dell'onere di specificazione delle ragioni di carattere sostituivo alla base dell'apposizione del termine, riconducibile a esigenze di trasparenza e verifica della veridicità delle stesse.
Nel caso di specie, a giudizio della Suprema Corte, la Corte territoriale si è correttamente attenuta a tali principi di diritto rilevando che nella clausola sono indicate le mansioni della lavoratrice e dei lavoratori da sostituire, nonché la durata del contratto e il luogo di lavoro.

Nullo il contratto di apprendistato se non viene svolta alcuna attività formativa

Cass. Sez. Lav. 20 Maggio 2020, n. 9286

Pres. Bronzini; Rel. De Gregorio; Ric. M.; Controric. R.

Apprendistato professionalizzante - Formazione e addestramento professionale - Obbligo datoriale - Necessità - Attività elementari e rutinarie - Assenza di apporto didattico e formativo di natura teorica e pratica – Invalidità del contratto.

Nel contratto di apprendistato il dato essenziale è rappresentato dall'obbligo del datore di lavoro di garantire un effettivo addestramento professionale finalizzato all'acquisizione, da parte del tirocinante, di una qualificazione professionale, sicché il ruolo preminente che la formazione assume rispetto all'attività lavorativa esclude che possa ritenersi conforme a tale speciale figura contrattuale un rapporto avente ad oggetto lo svolgimento di attività assolutamente elementari o routinarie, non integrate da un effettivo apporto didattico e formativo di natura teorica e pratica
NOTA
Una lavoratrice veniva assunta con qualifica di operaia generica di quinto livello, dapprima con contratto a tempo determinato, della durata di sei mesi, poi con contratto di apprendistato professionalizzante volto al conseguimento della qualifica di elettricista (quinto livello CCNL imprese artigiane del settore metalmeccanico) della durata di 60 mesi e, infine, con nuovo contratto a tempo determinato della durata complessiva (comprensiva di proroghe) di due anni.
Spirato il termine anche dell'ultimo contratto, la lavoratrice ricorreva al Tribunale di Teramo chiedendo l'accertamento della nullità del contratto di apprendistato per assenza degli elementi costituitivi del rapporto negoziale, nonché per la violazione del diritto di precedenza e del superamento dei limiti quantitativi e la condanna della società al pagamento delle relative differenze retributive.
Con sentenza del 20 dicembre 2016, il Tribunale di Teramo accertava la nullità del contratto di apprendistato, per assenza del piano formativo previsto dal d.lgs. 276/2003 come requisito di validità del rapporto negoziale e, conseguentemente, affermava la sussistenza tra le parti di un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il Tribunale dichiarava, inoltre, la nullità del termine apposto al successivo contratto a tempo determinato stipulato tra le parti con diritto della lavoratrice alla riammissione in servizio e condanna della società al ripristino del rapporto di lavoro.
Proposto gravame, la società deduceva (limitatamente a ciò che qui rileva) l'erroneità della sentenza del Giudice di prime cure, nella parte in cui aveva ritenuto applicabile al rapporto di apprendistato in esame il decreto legislativo n. 276 del 2003, in luogo del contratto collettivo metalmeccanico del 1997, che rimandava in materia di apprendistato alla legge n. 25 del 1955, la quale non prevedeva affatto la necessità di concordare un piano formativo per iscritto. La Corte di appello dell'Aquila rigettava il gravame e condannava l'appellante al pagamento delle ulteriori spese di lite. Infatti, secondo la Corte territoriale, essendo stato il contratto di apprendistato stipulato dalle parti in epoca successiva all'entrata in vigore del decreto n. 276/03, il rapporto restava soggetto alla disciplina dettata da quest'ultima fonte normativa, secondo cui il contratto scritto di apprendistato deve contenere il piano formativo individuale con l'indicazione di un monte ore di formazione; formazione costituente l'elemento caratterizzante la tipologia contrattuale distinta dall'ordinario rapporto di lavoro. L'assenza del piano formativo e, comunque, la provata mancata formazione consentivano, quindi, di qualificare il rapporto come ordinario e di ritenere simulato quello indicato come apprendistato.
Avverso la sentenza la società datrice presentava ricorso per Cassazione, affidato, sostanzialmente, ad un unico motivo. In particolare, secondo la ricorrente, la Corte territoriale aveva del tutto ignorato che l'art. 49, co. 5 bis, del d.lgs. 276/2003 (come modificato dalla L. n. 80 del 2005, art. 13, comma 13 bis) rimetteva la disciplina dell'apprendistato professionalizzante ai contratti collettivi nazionali di categoria, almeno fino all'approvazione delle leggi regionali previste dal comma 5 del medesimo articolo; contratti collettivi, dunque, da considerarsi gli unici deputati a determinare i profili formativi dell'apprendistato fino all'emanazione delle apposite leggi regionali. Sicché, non esistendo, al momento del fatti di causa, alcuna legge regionale in materia di apprendistato, e trattandosi di un settore (quello metalmeccanico artigiani) nel quale non era stata prevista neppure dalla contrattazione collettiva una specifica disciplina dell'apprendistato, l'unica normativa utilizzabile per il rapporto negoziale in causa era quella del vecchio apprendistato (i.e. la l. 25/1955), richiamata appunto nel CCNL del 27 novembre 1997, che non prevedeva quale requisito di validità del contratto la stipula di piano formativo risultante per iscritto. Quest'ultimo, infatti, era stato introdotto soltanto dalla L. n. 167 del 2011, che aveva disciplinato il contratto di apprendistato professionalizzante, applicabile per il settore metalmeccanico artigiani a far tempo dal 16 giugno 2011.
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte rigetta le doglianze di parte ricorrente rilevando che la Corte distrettuale, con accertamento di merito non censurabile in Cassazione, aveva rilevato che - indipendentemente dalla questione della forma scritta circa il piano formativo individuale - nel caso di specie non si fosse svolta alcuna formazione professionale, il cui difetto consentiva di qualificare il rapporto di apprendistato quindi come ordinario rapporto di lavoro, ritenendo per contro simulato quello indicato come di apprendistato. Tale ratio decidendi, afferma la Corte, si appalesa del tutto corretta alla luce del conforme orientamento della giurisprudenza in materia secondo cui nel contratto di apprendistato il dato essenziale è rappresentato dall'obbligo del datore di lavoro di garantire un effettivo addestramento professionale finalizzato all'acquisizione, da parte del tirocinante, di una qualificazione professionale, sicché il ruolo preminente che la formazione assume rispetto all'attività lavorativa esclude che possa ritenersi conforme a tale speciale figura contrattuale un rapporto avente ad oggetto lo svolgimento di attività assolutamente elementari o routinarie, non integrate da un effettivo apporto didattico e formativo di natura teorica e pratica, con accertamento rimesso al giudice di merito ed incensurabile in cassazione, se congruamente motivato. D'altronde, il ruolo preminente che la formazione assume rispetto all'attività lavorativa è chiaramente desumibile non solo dai numerosi interventi del legislatore nazionale, sempre diretti a renderne effettiva la realizzazione - v. L. n. 25 del 1955,art. 2, comma 2, introdotto dalla L. n. 424 del 1968, art. 16, comma 1, L. n. 196 del 1997, art. 2, lett. a e b, del D.L. n. 214 del 1999, convertito nella L. n. 263 del 1999, di modifica di alcune disposizioni della L. n. 25 del 1955 - ma anche dalla disciplina comunitaria, come si desume dall'art. 127 del trattato istitutivo della Comunità Europea dal Regolamento del Consiglio n. 2081/93 del 20 luglio 1993. In sintesi l'apprendistato si presenta come un rapporto di lavoro speciale, in forza del quale l'imprenditore è obbligato ad impartire nella sua impresa all'apprendista l'insegnamento necessario perché questi possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato, occorrendo a tal fine lo svolgimento effettivo, e non meramente figurativo, sia delle prestazioni lavorative da parte del dipendente sia della corrispondente attività di insegnamento da parte del datore di lavoro, la quale costituisce elemento essenziale e indefettibile del contratto di apprendistato, entrando a far parte della causa negoziale.

Stress psicologico da timore di contrarre una malattia da esposizione all'amianto e risarcimento di danno morale ed esistenziale

Cass. Sez. Lav. 20 maggio 2020, n. 9295

Pres. Nobile; Rel. Piccone; P.M. Celentano; Ric. P.C.A. + 2; Controric. N.P. S.p.A.

Risarcimento del danno – Danno non patrimoniale – Danno morale soggettivo – Danno esistenziale – Liquidazione – Stress psicologico da timore di contrarre la malattia – Alterazione delle abitudini di vita –Automaticità della loro esistenza e del conseguente riconoscimento – Esclusione – Onere della prova – Necessità

Il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello c.d. esistenziale, non può essere considerato "in re ipsa", ma deve essere provato secondo la regola generale dell'articolo 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell'alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell'esistenza del soggetto. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico.
NOTA
La Corte di Appello di Genova confermava la pronuncia del giudice di prime cure che – con riferimento alla domanda di alcuni lavoratori con la quale avevano chiesto l'accertamento del diritto al risarcimento dei danni biologico, morale ed esistenziale asseritamente subiti per essere gli stessi stati esposti all'amianto nello svolgimento delle proprie mansioni di operai siderurgici – aveva ritenuto condivisibili le risultanze delle CTU medico legali, che avevano escluso la sussistenza del nesso di causalità fra l'attività lavorativa svolta e le patologie respiratorie di tipo lieve da cui risultavano affetti i lavoratori.
La Corte territoriale riteneva altresì, che lo "stress psicologico da timore" di contrarre una malattia da esposizione all'amianto, lamentato dai lavoratori, «non costituisse situazione giuridicamente tutelabile in difetto di prova circa l'esistenza di circostanze di fatto esterne, obiettivamente osservabili, atte a cagionare il dedotto turbamento psichico».
Avverso tale decisione i lavoratori hanno proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili.
In particolare, per quanto qui rileva, la Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte di Appello di Genova in quanto coerente con i criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale.
Nel caso in esame la Corte territoriale, con riferimento al danno biologico, escludeva il nesso di causalità e, con riguardo al danno non biologico, affermava che «non erano stati allegati elementi obiettivi sulla base dei quali risalire alla sofferenza e al cambiamento delle abitudini di vita derivati dalla consapevolezza della esposizione lavorativa ad agenti nocivi».
Secondo la Cassazione le argomentazioni della sentenza di secondo grado in tema di autonoma risarcibilità del danno morale di tipo soggettivo, anche in assenza del danno biologico o di altro evento produttivo del danno patrimoniale ex artt. 2059 e 1226 c.c., in combinato disposto con l'art. 32 Cost., erano conformi alle statuizioni della nota pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 26972 del 2008, recentemente confermate dalla Sezione Lavoro (Cass. 27.2.2019 n. 5747; Cass. 20.08.2019 n. 21460), che hanno escluso «sia la tesi che identificava il danno non patrimoniale nella lesione stessa del diritto (danno - evento), sia quella costituita dalla affermazione che, nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, in quanto si è osservato che entrambe le posizioni avrebbero snaturato la funzione del risarcimento in quella di una pena privata per un comportamento lesivo».
La Cassazione ritiene, altresì, condivisibile il decisum della Corte di merito anche con riguardo alle argomentazioni svolte in tema di "danno esistenziale", precisando che il danno non patrimoniale, in particolare, quello esistenziale, non possa essere considerato in re ipsa, ma debba essere provato secondo la regola generale dell'art. 2697 c.c., in quanto dovrebbe consistere nel radicale cambiamento di vita, nell'alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell'esistenza del soggetto, con la conseguenza che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico.
Anche su questo punto, la Corte territoriale si uniformava all'impostazione data dalla predetta pronuncia delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008 «la quale, sotto il profilo probatorio, ha ammesso al riguardo la prova presuntiva previa, però, allegazione da parte del danneggiato di tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto».
Conclusivamente il ricorso dei lavoratori viene respinto.

Infortunio sul lavoro e carenza di formazione e informazione sui rischi

Cass. Sez. Lav. ord. 15 maggio 2020, n. 8988

Pres. Frasca; Rel. Rossetti; Ric. S.M.+2; Controric. G.L. S.p.A.

Infortunio sul lavoro - Responsabilità ex art. 2087 c.c. - Concorso di colpa del danneggiato -

Carenza di formazione e di informazione sui rischi - Mancata adozione delle prescritte misure di sicurezza - Imprudenza del lavoratore - Irrilevanza

Nel caso di infortunio sul lavoro, deve escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell'art. 1227, comma primo, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l'ordine; od ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi. Ricorrendo tali ipotesi, l'eventuale condotta imprudente della vittima degrada a mera occasione dell'infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore perdeva la vita a causa dello scoppio di un fusto metallico nel quale stava pompando olio idraulico con un compressore, invece che con una pompa manuale.
Dagli accertamenti condotti a seguito dell'incidente mortale era emerso che la modifica apportata artigianalmente al fusto per permettere l'impiego del compressore era stata determinante per la causazione dell'incidente.
In primo grado, la società veniva condannata al risarcimento del danno in favore dei familiari del lavoratore, con attribuzione alla vittima del concorso di colpa nella misura del 50%.
La sentenza veniva confermata anche in grado di appello dalla Corte di Appello di Brescia che, in punto di fatto, accertava che: i) lo scoppio del fusto era stato la causa della morte dell'operaio; ii) la modifica condotta artigianalmente sul fusto che si sarebbe dovuto riempire di olio idraulico con una pompa a mano (e non già per mezzo di un compressore) aveva causato lo scoppio del fusto; iii) il datore di lavoro non aveva dimostrato di avere consegnato al lavoratore «la procedura operativa scritta» che imponeva l'uso solo di una pompa manuale per il riempimento del fusto; iv) mancava la prova che il datore di lavoro avesse impartito ai dipendenti corsi di addestramento per l'esecuzione delle operazioni di travaso dell'olio idraulico; v) difettava la prova che l'esecuzione dei lavori di saldatura sul fusto fosse stata una autonoma iniziativa del lavoratore; vi) la datrice di lavoro aveva «omesso i necessari, doverosi e dovuti, continuativi controlli delle attrezzature aziendali (...) ed altresì delle necessarie opere e controlli volti a garantire la sicurezza nei locali aziendali».
La Corte territoriale, pur confermando anche la sussistenza del concorso di colpa del lavoratore, lo quantificava nella minor misura del 30%, in considerazione del fatto che la vittima era un operaio esperto e che «per questo costituì una condotta imprudente, da parte sua, pompare olio con un compressore in un fusto artigianalmente modificato; e che anzi la vittima avrebbe dovuto rifiutarsi, ove le fosse stato imposto, di eseguire quella lavorazione».
I familiari della vittima hanno proposto ricorso per cassazione deducendo, in particolare, la violazione degli artt. 1218 e 2087 c.c., per erroneo riconoscimento del suo concorso di colpa.
La sentenza impugnata veniva infatti censurata per il fatto di avere ritenuto sussistente il concorso di colpa del lavoratore nonostante fosse stato accertato in giudizio che il datore di lavoro non aveva fornito la prova di avere attuato la specifica procedura scritta che imponeva l'uso esclusivamente di pompe manuali per il travaso di olio idraulico, di aver fatto seguire corsi di addestramento per le operazioni di travaso dell'olio, nonché la prova del fatto che fosse stata la vittima ad eseguire le modifiche artigianali al fusto esploso.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato tale motivo di impugnazione.
In primo luogo, la Suprema Corte ha ricordato come sia stato più volte affermato il principio secondo il quale «la vittima di un infortunio sul lavoro può ritenersi responsabile esclusiva dell'accaduto solo in un caso: quando il lavoratore abbia tenuto "un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute"» (cfr. Cass. n. 798 del 13/1/2017 e Cass. n. 19494 del 10/9/2009).
Il datore di lavoro risponde, infatti, «dei rischi professionali propri (e cioè insiti nello svolgimento dell'attività lavorativa) e di quelli impropri (e cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale».
Si configurerà dunque il c.d. "rischio elettivo", creato dal prestatore d'opera a prescindere dalle esigenze lavorative, ogni qualvolta il rischio cui il lavoratore si espone avvenga per una «scelta volontaria, arbitraria e diretta a soddisfare impulsi personali» e sia privo di connessione con l'attività professionale. In quanto tale, il rischio elettivo non è meritevole della tutela risarcitoria e assicurativa da parte dell'assicuratore sociale (Cass. n. 16 del 4/1/1980; Cass. n. 3919 del 29/6/1982; Cass. n. 4298 del 8/5/1996; Cass. n. 4557 del 22/5/1997; Cass. n. 2572 del 7/3/1998; Ord. n. 7649 del 19/3/2019).
Detta tipologia di rischio si configura dunque al ricorrere di tre elementi, la cui sussistenza «spezza il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro e l'infortunio», con conseguente venir meno della responsabilità datoriale: un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, estraneo alle finalità produttive; la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; la mancanza di nesso di derivazione causale con lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Al di fuori delle ipotesi di rischio elettivo occorrerà invece stabilire se ed a quali condizioni possa ritenersi il lavoratore vittima dell'infortunio corresponsabile di quest'ultimo.
Infatti, ricorda la Suprema Corte, benché come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità l'art. 1227, comma primo, c.c. ("Concorso del fatto colposo del creditore") si applichi anche alla materia degli infortuni sul lavoro, posto che la legge (artt. 2104 c.c. e art. 20, D.Lgs. 81/2008) impone anche al lavoratore l'obbligo di osservare i doveri di diligenza a tutela della propria o dell'altrui incolumità, tuttavia, anche in caso di condotta imprudente di quest'ultimo, vige l'obbligo per il datore di lavoro di salvaguardarne l'incolumità.
Per la valutazione della sussistenza o meno della corresponsabilità del lavoratore nella causazione dell'evento dannoso e, ove sussista, in che misura, occorre dunque distinguere tra tre diverse ipotesi.
La prima ipotesi è quella in cui l'infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione di ordini datoriali. In tal caso non vi sarà concorso di colpa del lavoratore, perché «l'eventuale imprudenza del lavoratore non è più "causa", ma degrada ad "occasione" dell'infortunio». Se così non fosse, si finirebbe infatti con l'attribuire al lavoratore l'onere di verificare la pericolosità delle direttive di servizio impartitegli dal datore di lavoro, assumendosene il rischio (Cass. n. 30679 del 25/11/2019; Cass. n. 7328 del 17/4/2004; Cass. n. 5024 del 8/4/2002; Cass. n. 6993 del 16/7/1998).
Una seconda ipotesi ricorre invece nel caso in cui l'infortunio sia avvenuto «a causa dell'organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza» (Ord. n. 12538 del 10/5/2019). Anche in tal caso non sussisterà un concorso di colpa del lavoratore nella causazione dell'evento, poiché il datore di lavoro è tenuto a tutelarne l'incolumità, nonostante l'eventuale imprudenza o negligenza di quest'ultimo. Pertanto, la mancata adozione da parte del datore di lavoro delle prescritte misure di sicurezza costituisce «l'unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso» (tra le altre, Cass. n. 24798 de 5/12/2016 e Cass. n. 1994 del 13/2/2012).
L'ultima ipotesi, in cui il datore di lavoro non può invocare il concorso di colpa del lavoratore-vittima dell'infortunio, si configura nel caso in cui tale infortunio sia avvenuto «a causa di un deficit di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro». Nonostante l'imprudenza del lavoratore, la causa di della stessa è infatti la violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di istruire adeguatamente i propri dipendenti (Cass. n. 30679 del 25/11/2019 e Cass. n. 24629 del 2/10/2019).
Nel caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che la Corte d'Appello di Brescia avesse effettivamente violato l'art. 1227 c.c., facendone applicazione in una fattispecie in cui mancava il nesso di causalità tra la condotta della vittima e l'infortunio. Era infatti stato accertato che il datore di lavoro non aveva eseguito i doverosi controlli sui macchinari, non aveva fornito le opportune istruzioni al lavoratore e non gli aveva neppure impartito alcun corso di formazione per quel tipo di lavorazione.
Ricorrevano, dunque, tutte e tre le ipotesi sopra indicate, al verificarsi delle quali «l'eventuale imprudenza del lavoratore degrada a mera occasione dell'infortunio», con sussistenza di responsabilità -esclusiva- del datore di lavoro in relazione all'infortunio mortale subìto dal lavoratore.
Sulla scorta di tali considerazioni il motivo di ricorso esaminato è stato accolto e la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte di Appello di Brescia, in diversa composizione, per l'applicazione del principio di diritto di cui alla massima.

Malattia da mobbing indennizzabile dall'Inail

Cass. Sez. Lav. ord. 14 maggio 2020, n. 8948

Pres. D'Antonio; Rel. Boghetich; Ric. M.G.; Controric. I.N.A.I.L.

Malattia professionale - Malattia conseguente al mobbing - Tecnopatie causate dall'attività svolta - Rischio specifico e rischio improprio – Rilevanza - Indennizzabilità da parte dell'Inail - Sussiste - Onere della prova del nesso causale - Necessità

In tema di assicurazione contro le malattie professionali è indennizzabile dall'Inail anche la malattia conseguente al mobbing. La protezione assicurativa è estesa a ogni forma di tecnopatia di natura fisica o psichica che possa ritenersi conseguenza dell'attività svolta, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia. Infatti, in materia di assicurazione sociale rileva non soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il rischio improprio ossia non strettamente insito nella prestazione, ma collegato con la stessa.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Perugia respingeva la domanda proposta da un lavoratore tesa ad ottenere il riconoscimento della natura professionale della malattia di cui era affetto, poiché causata dalla condotta vessatoria tenuta nei suoi confronti dal datore di lavoro. Il giudice di secondo grado ha ritenuto non tutelabile nell'ambito dell'assicurazione obbligatoria gestita dall'Inail la malattia derivante non direttamente dalle lavorazioni elencate nell'art. 1 del Testo Unico 1124/1965, bensì da situazioni di c.d. costrittività organizzativa, come il mobbing dedotto nel ricorso introduttivo, richiamando a sostegno una sentenza del Consiglio di Stato, con la quale si è sostenuto che la malattia professionale, per essere indennizzabile deve rientrare nell'ambito del rischio assicurato ex art. 3 del Testo Unico citato, che riguarda solo le malattie professionali tabellate o non tabellate, contratte nell'esercizio ed a causa delle lavorazioni specifiche previste in tabella.
Per la cassazione della sentenza ricorreva il lavoratore «per avere la Corte errato nel disconoscere la indennizzabilità delle malattie psicofisiche derivanti dalla costrittività organizzativa sul presupposto che essa non attenga mai ad un rischio specifico tutelabile dal d.p.r. 1124 del 1965; tanto più che il decreto del Ministero del lavoro dell'11 dicembre 2009 ha approvato una nuova tabella in cui ha inserito espressamente le disfunzioni della organizzazione del lavoro, vale a dire la c.d. costrittiva organizzativa, nella lista due».
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso richiamando e ribadendo il consolidato orientamento secondo cui «in materia di assicurazione sociale di cui all'art.1 del T.U. 1124/1965 rileva non soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il c.d. rischio specifico improprio; ossia non strettamente insito nell'atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa».
La Corte si legittimità ha, quindi, affermando che «non può essere seguita la tesi espressa dalla sentenza impugnata secondo cui sarebbe da escludere che l'assicurazione obbligatoria copra patologie non correlate a rischi considerati specificamente nelle apposite tabelle; posto che, al contrario, nel momento in cui il lavoratore è stato ammesso a provare l'origine professionale di qualsiasi malattia, sono necessariamente venuti meno anche i criteri selettivi del rischio professionale, inteso come rischio specificamente identificato in tabelle, norme regolamentati o di legge; non potendosi sostenere che la tabellazione sia venuta meno solo per la malattia e sia invece sopravvissuta ai fini dell'identificazione del rischio tipico, ai sensi degli artt. 1 e 3 del TU».
Concludendo, la Corte ha precisato che «nell'ambito del sistema del T.U., sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l'organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica».

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