Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Assorbibilità del superminimo
Licenziamento disciplinare e reintegra
Licenziamento disciplinare del dipendente in malattia
Licenziamento ritorsivo
Licenziamento disciplinare e immutabilità della contestazione


Assorbibilità del superminimo

Cass. Sez. Lav. ord. 5 giugno 2020, n. 10779

Pres. Berrino; Rel. Amendola; Ric. S.P. S.p.A.; Contr. O.M e T.R.;

Lavoro subordinato - Retribuzione - Superminimo - Assorbibilità - Comportamento concludente del datore che depone per la non assorbibilità - Rilevanza

In tema di assorbibilità del superminimo, ai fini della ricostruzione della volontà negoziale deve essere valutato il comportamento delle parti anche successivo alla conclusione del patto, potendo comportamenti reiterati del datore di lavoro successivi alla pattuizione dell'emolumento essere ritenuti concludenti nel senso dell'esclusione dell'assorbibilità.
NOTA
La Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha accertato il diritto al mantenimento, da parte dei lavoratori, dell'aumento retributivo a titolo di superminimo non assorbibile, ritenendo che la reiterazione nel tempo della condotta aziendale, consistente nel mancato assorbimento del compenso in occasione della loro progressione professionale, manifestasse la volontà di ritenere il superminimo non assorbibile.
Avverso tale pronuncia la società ha proposto ricorso per Cassazione deducendo l'erronea valutazione, da parte della Corte di Appello, degli elementi di fatto e di diritto posti alla base della decisione.
La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto la formulazione dei motivi era orientata ad una rivalutazione dell'accertamento della volontà delle parti che, in quanto accertamento fattuale, è riservato ai giudici di merito. La Corte ha infatti ribadito che è compito del giudice di merito valutare la sussistenza di eventuali deroghe al principio generale dell'assorbibilità del superminimo, restando a carico del lavoratore l'onere di provare la sussistenza del titolo o delle circostanze che consentano di escluderne l'assorbimento.
Sul punto il giudice di legittimità, uniformandosi ad altri propri precedenti, ha affermato che «ai fini della ricostruzione della volontà negoziale deve essere valutato il comportamento delle parti anche successivo alla conclusione del patto relativo» potendo quindi i comportamenti reiterati del datore di lavoro, successivi alla pattuizione dell'emolumento, essere ritenuti concludenti nel senso dell'esclusione dell'assorbibilità.
La Corte ha quindi ritenuto scevra da vizi la sentenza della Corte territoriale, la quale aveva ritenuto che la protrazione nel tempo della condotta aziendale di sottrazione del superminimo agli aumenti tabellari fissati dal contratto collettivo nonché il mancato assorbimento in occasione della progressione professionale dei dipendenti fosse concludente nel senso dell'esclusione dell'assorbibilità del superminimo.

Licenziamento disciplinare e reintegra

Cass. Sez. Lav. 17 giugno 2020, n. 11701

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.T.; Controric. B.A.

Licenziamento per giusta causa – Nozione di giusta causa – Negazione dell'elemento fiduciario - Necessità - Gravità dei fatti – Portata oggettiva e soggettiva – Proporzionalità – Valutazione del giudice – Sindacabilità in sede di giudizio di legittimità – Condizioni

La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare. Quale evento che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici e giuridici.

Licenziamento per giusta causa – Proporzionalità – Fattispecie non contemplata dal CCNL – Reintegrazione – Illegittimità – Tutela indennitaria – Applicabilità

La valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato in giudizio comporta l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, quarto comma, L. 300/1970, solo qualora la fattispecie accertata sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale caso la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa, per le quali l'art. 18, quinto comma, L. 300/1970 prevede la tutela indennitaria c.d. "forte".
NOTA
La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, che aveva accertato l'illegittimità del licenziamento disciplinare con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente ed al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. I giudici di merito ritenevano che le condotte contestate non fossero di gravità e importanza tali da giustificare il licenziamento. Inoltre, sostenevano che, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 18, L. 300/1970, la tutela reale non richiederebbe che la norma collettiva prenda in considerazione lo specifico comportamento oggetto di contestazione, risultando invece applicabile anche laddove esista una fattispecie disciplinare, ancorché di carattere generale o di chiusura, nella quale il comportamento possa essere incasellato.
Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione avverso la pronuncia della Corte d'Appello, eccependo innanzitutto che i giudici di merito avessero preso in considerazione elementi irrilevanti ai fini della verifica di proporzionalità della sanzione.
La Suprema Corte ritiene questo motivo di censura infondato, ribadendo il principio ormai consolidato secondo cui la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla porta oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare. Inoltre, la Corte precisa che la giusta causa di licenziamento, quale evento che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro, integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dal giudice valorizzando anche fattori esterni relativi alla coscienza generale e principi tacitamente richiamati dall'art. 2119 c.c. La disapplicazione di questi principi è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi di fatto si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici e giuridici (in senso conforme, Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).
Inoltre, le valutazioni espresse dal giudice di merito possono essere sindacate in sede di legittimità a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza di tale giudizio rispetto agli "standard" esistenti nella realtà sociale (in senso conforme, Cass., 26 marzo 2018, n. 7426; Cass., 4 maggio 2005, n. 9266).
Quale altro motivo di ricorso, il datore di lavoro lamentava una violazione dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970, per avere i giudici applicato la tutela reintegratoria nonostante la condotta contestata non fosse espressamente prevista dalle previsioni collettive tra quelle punibili con una sanzione conservativa.
Il motivo viene accolto dalla Suprema Corte, in coerenza con i principi dalla stessa elaborati in tema di applicabilità della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, come modificato dalla Legge Fornero.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, la valutazione di non proporzionalità tra fatti contestati e licenziamento comporta la reintegrazione soltanto qualora la fattispecie concreta sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale ipotesi, la sproporzione tra condotta e sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa, per le quali l'art. 18, quinto comma, L. 300/1970, prevede soltanto la tutela indennitaria c.d. forte (in senso conforme, Cass., 5 dicembre 2019, n. 31839; Cass., 19 luglio 2019, n. 19578; Cass., 14 dicembre 2018, n. 32500; Cass., 12 ottobre 2018, n. 25534; Cass., 25 maggio 2017, n. 13178).
La limitazione della tutela reintegratoria alle sole ipotesi in cui il contratto collettivo tipizza la condotta e prevede l'applicazione di una sanzione conservativa è coerente con la lettera dell'art. 18, quarto comma, L. 300/1970, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano la tutela reintegratoria – che costituisce un'eccezione rispetto alla regola generale rappresentata dalla tutela indennitaria –, nonché con la ratio della norma, in cui la tutela reintegratoria presuppone l'abuso consapevole del potere disciplinare e una sicura e intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, dell'illegittimità del provvedimento espulsivo in ragione dell'insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare il licenziamento (in senso conforme, Cass., 19578/2019 cit.; Cass., 9 maggio 2019, n. 12365).

Licenziamento disciplinare del dipendente in malattia

Cass. Sez. Lav. 15 giugno 2020, n. 11535

Pres. Di Cerbo; Rel. De Marinis; P.M. Sanlorenzo; Ric. I.G; Contr. B.G.E R.F. S.p.a.;

Dipendente in malattia – Investigazioni – Svolgimento attività – Sforzo minimo – Incompatibilità – Licenziamento disciplinare – Legittimità

È legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente in malattia che, all'esito di accertamenti investigativi, risulti aver tenuto condotte (nella specie operazioni di carico manuale di legna e taniche) idonee a porre in pericolo e a ritardare potenzialmente la sua guarigione.
NOTA
La Corte di appello di Torino confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Novara aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al dipendente per avere l'impresa, ricorrendo ad un'agenzia investigativa, accertato a suo carico lo svolgimento di attività incompatibile con lo stato di malattia addotto a giustificazione dell'assenza dal lavoro.
In particolare, la Corte territoriale, aveva ritenuto, da un lato, legittimi gli accertamenti investigativi e corrette le valutazioni del primo giudice circa la valenza confessoria attribuita alle giustificazioni rese dal dipendente anche in relazione alle operazioni di carico manuale della legna, dall'altro lato, aveva ritenuto provato, anche attraverso l'escussione testimoniale, il compimento di sforzi non consentiti dalle prescrizioni mediche.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
La Suprema Corte, per quanto qui rileva, ritiene immune da vizi logico-giuridici l'iter argomentativo espresso dalla Corte territoriale in ordine all'idoneità delle condotte tenute dal ricorrente a porre in pericolo e a ritardare potenzialmente la guarigione.
Evidenzia la Corte, che «il dovere di correttezza e buona fede doveva indurre il ricorrente ad astenersi da attività, come il carico e scarico delle legna o il trasporto di taniche o anche la guida di un trattore, potenzialmente idonee a pregiudicare il recupero», in quanto comportavano un sia pur minimo impegno fisico o comunque apprezzabili sollecitazioni agli arti superiori.
Conclusivamente il ricorso del lavoratore viene respinto.

Licenziamento ritorsivo

Cass. Sez. Lav. 17 giugno 2020, n. 11705

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; Ric. N. S.p.A.; Controric. B.F.

Licenziamento ritorsivo - Onere della prova a carico del lavoratore - Sussiste - Mezzi di prova - Presunzioni - Possibilità - Motivo unico determinante - Necessità - Fattispecie

Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 - costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni.
NOTA
La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva dichiarato la nullità del licenziamento di un dirigente, in quanto ritorsivo, condannando la società datrice di lavoro a reintegrare in servizio il lavoratore e a risarcirlo del danno ex art. 18 L. n.300/1970.
In particolare, la Corte di Appello rilevava che il non agevole assolvimento dell'onere della prova della ritorsività del licenziamento, da parte del lavoratore, potesse essere conseguito anche attraverso l'assunzione di presunzioni, tra le quali presentava un ruolo non secondario l'inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del recesso o di alcun motivo ragionevole. Rilevava infatti la Corte di Appello che la sentenza di primo grado aveva tratto dai fatti noti quali «l'infondatezza e genericità degli addebiti; contenzioso in corso per una questione retributiva; progressiva emarginazione del dirigente e quasi totale sua esautorazione dalle funzioni ricoperte, realizzatasi nel periodo immediatamente precedente il licenziamento» la natura ritorsiva del recesso.
La Società, pertanto, impugnava anche la sentenza di secondo grado.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso della Società affermando che la prova dell'esistenza di un motivo di ritorsione di licenziamento può fondarsi su presunzioni, tra le quali ha un ruolo non secondario anche la dimostrazione dell'inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole. Continua la Corte sostenendo che il giudice di merito, nel valutare la ritorsività di un licenziamento deve valutare «tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. 23583/2019)».

Licenziamento disciplinare e immutabilità della contestazione

Cass. Sez. Lav. 15 giugno 2020, n. 11540

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich della Torre; P.M. Celeste; Ric. T.N.; Controric. I.I. S.p.A.

Procedimento disciplinare - Immutabilità della contestazione - Necessità - Diversa qualificazione del fatto - Irrilevanza

In tema di sanzioni disciplinari, sussiste una modifica della contestazione disciplinare solamente ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle già contestate, non quando il datore di lavoro proceda ad un diverso apprezzamento e qualificazione dello stesso fatto.
NOTA
La Corte d'appello, confermando la statuizione del giudice di primo grado, ha respinto il ricorso proposto dal lavoratore inteso ad ottenere la dichiarazione dell'illegittimità del licenziamento intimato per avere - nel suo ruolo di direttore dei lavori - posto in essere condotte illegittime quali la falsa attestazione nei libretti di misura e negli stati di avanzamento dei lavori sia dell'esecuzione di opere mai realizzate sia dell'esecuzione di opere realizzate in misura inferiore rispetto a quelle effettivamente contabilizzate, con conseguente formazione di contabilizzazioni non veritiere nonché per avere costretto i titolari di alcune imprese subappaltatrici ad eseguire lavori edili di ristrutturazione, a titolo gratuito o con compensi irrisori, presso un suo immobile, nonché a versare cospicue somme in denaro e ad assumere il figlio per alcuni mesi all'anno e per ingenti compensi.
La Corte territoriale ha ritenuto di escludere, a seguito di ampia disamina della lettera di contestazione disciplinare e della comunicazione di licenziamento, qualsiasi violazione del principio di immutabilità della contestazione e del diritto di difesa, sottolineando che i fatti contestati e sanzionati erano i medesimi e che l'eventuale ravvisata qualificazione in termini di colpa (anziché di dolo) dell'elemento soggettivo non modificava l'addebito disciplinare; la Corte ha aggiunto che non mutava la ricostruzione degli eventi la circostanza che i lavori fossero stati affidati "a corpo" piuttosto che "a misura", che il lavoratore non aveva avanzato alcuna richiesta di esibizione di documentazione o di incarico ad un consulente d'ufficio al fine di verificare la correttezza delle contabilizzazioni dei lavori non eseguiti come accertato in sede di indagini preliminari dal pubblico ministero (nell'ambito del processo penale pendente), che, infine, la condotta posta in essere non era contemplata dal c.c.n.l. applicato in azienda tra quelle punibili con sanzione conservativa e poteva, dunque, legittimamente applicarsi la sanzione del licenziamento in considerazione della gravità dell'addebito e in coerenza con i comportamenti elencati dalle parti sociali "a titolo indicativo" nell'ambito della sanzione espulsiva.
Avverso la sentenza della Corte d'appello ha proposto ricorso il lavoratore ma la Suprema Corte lo ha rigettato.
Per la Cassazione la sentenza impugnata si è correttamente conformata ai principi espressi in materia di immutabilità del fatto contestato. Invero, la Suprema Corte ha ripetutamente affermato che nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore, l'essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell'addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a richiamare quanto in precedenza contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro a descrivere nuovamente i fatti in contestazione per rendere puntualmente esplicitate le motivazioni del recesso e per manifestare come gli stessi non possano ritenersi abbandonati o superati. In virtù di detto principio, i fatti su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio devono coincidere con quelli oggetto dell'avvenuta contestazione e il contraddittorio sul contenuto dell'addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell'episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all'azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa.
Per la Cassazione la Corte territoriale ha chiaramente pronunciato sulla censura relativa alla immutabilità del fatto contestato con particolare riguardo al profilo dell'elemento soggettivo nel senso del suo rigetto, avendo dapprima svolto una attenta disamina comparata del contenuto della lettera di contestazione disciplinare e di quello della lettera di licenziamento per giungere a respingere qualsiasi profilo di difformità in ordine alla condotta imputata al lavoratore, ed avendo, poi, aggiunto che anche una diversa qualificazione dell'elemento soggettivo della condotta (colpa anziché dolo) non era suscettibile di modificare i fatti addebitati al lavoratore, non conseguendo alcun pregiudizio al diritto di difesa.

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