Contenzioso

Nessuna confisca per l’indebita compensazione di contributi previdenziali se non c’è profitto

La Corte di Cassazione afferma che in ipotesi d'indebita compensazione ai danni dell'INPS, la condotta riparatoria volontaria del datore di lavoro dopo la consumazione del reato fa sì che il giudice non possa applicare la confisca del denaro con la sentenza di condanna.

di Salvatore Servidio

Nella vicenda oggetto della sentenza 21353 del 17 luglio 2020, della sesta sezione penale della Corte di cassazione si rileva che il Gup del Tribunale, su concorde richiesta delle parti, ha applicato la pena di sei mesi di reclusione all'indagato per il reato di indebita compensazione (articolo 10 quater del Dlgs 74/2000), per avere costui ottenuto dall'Inps, mediante compensazione con propri debiti, il rimborso di somme dovute a titolo di indennità a una propria dipendente, avendone falsamente comunicato all'ente previdenziale l'avvenuta corresponsione, in realtà mai avvenuta.

Con la medesima sentenza, il Gup ha altresì disposto la confisca del profitto del reato, a norma dell'articolo 322 ter, comma 1, del Codice penale, nella misura delle somme oggetto d'indebita compensazione. Nel ricorrere per Cassazione, l'imputato chiede l'annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui è stata disposta la confisca, poiché, avendo successivamente corrisposto all'avente diritto le somme dovutele, egli non avrebbe conseguito alcun profitto dal reato.

L'esito del giudizio di legittimità è a favore dell'imputato, affermandosi che in ipotesi d'indebita compensazione ai danni dell'Inps, la condotta riparatoria volontaria del datore di lavoro dopo la consumazione del reato fa sì che il giudice non possa applicare la confisca del denaro con la sentenza di condanna. Sicché, quando l'imprenditore restituisce al dipendente il rimborso di somme dovute a titolo di indennità, cade la confisca sui suoi beni.

Nel merito, la sezione penale chiarisce innanzitutto che per «profitto del reato» si intende il «vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito» (sezioni unite 10561/2014 e 31617/2015). Nello specifico, il profitto va quindi individuato nel mancato esborso, per effetto dell'indebita compensazione ottenuta, delle somme che l'imputato avrebbe dovuto versare alla propria dipendente per le prestazioni previdenziali.

La condotta del reato di indebita compensazione si caratterizza, infatti, per il mancato versamento di somme dovute utilizzando in compensazione, secondo l'articolo 17 del Dlgs 241/1997, crediti non spettanti o inesistenti. Trattandosi, perciò, di un risparmio di spesa, detto profitto è rappresentato direttamente dal denaro non versato.

Tanto rileva ai fini dell'individuazione della natura della misura ablativa disposta: se, cioè, si tratti di confisca diretta, e quindi di una misura di sicurezza, oppure di confisca di valore, nella specie "per equivalente", che invece rappresenta una pena in rem (sezioni unite 18374/2013 e 16103/2020). La Corte, nell'individuare tale misura, sottolinea che laddove il profitto sia rappresentato da denaro, la relativa confisca deve essere qualificata come "diretta", indipendentemente dalla derivazione immediata o meno dal reato, versandosi, pertanto nel caso in esame, in un'ipotesi di confisca diretta e, quindi, di misura di sicurezza.

In altre parole, la ragione giustificatrice delle misure di sicurezza è di natura tipicamente preventiva. Partendo da questo presupposto, se ne inferisce logicamente che, qualora il profitto conseguito attraverso il reato venga successivamente meno, per effetto della condotta riparatoria posta in essere volontariamente dal reo, la cosa pericolosa esce dal circuito dell'economia legale per cui non vi è più alcuna ragione che giustifichi la permanenza dell'ablazione.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato in altre occasioni la necessità della progressiva riduzione del sequestro in ragione della misura dei tributi successivamente versati dall'imputato in adempimento dell'accordo eventualmente perfezionato con l'amministrazione finanziaria. Ciò in quanto, ove la somma "restituita" - o comunque rifusa - non fosse computata come ontologica riduzione di ciò che il reato aveva fruttato, la confisca non prenderebbe più in considerazione l'utilità economica che è residuata all'esito di una condotta di adempimento dell'obbligo restitutorio, ma un importo avulso dalle condotte riparatorie e come tale raccordabile ad un tipo di sanzione non prevista dall'ordinamento (Cassazione 45054/2011 e 6635/2014).

In caso contrario verrebbe a determinarsi un'inammissibile duplicazione sanzionatoria (bis in idem), in contrasto con il principio secondo cui l'ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito attraverso l'azione delittuosa. In conclusione, secondo la Cassazione, essendo pacifico in punto di fatto che il ricorrente, successivamente al perfezionamento del reato, abbia versato alla propria dipendente le somme alla stessa spettanti, è conseguentemente venuto meno il corrispondente vantaggio economico dallo stesso ottenuto mediante la compensazione del relativo credito verso l'Inps con i suoi debiti nei confronti del medesimo. Nessun "profitto", perciò, è residuato all'imputato, in ragione di una sua condotta riparatoria volontaria e, di conseguenza, nessuna confisca di tali somme poteva essere disposta.

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