Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortuni sul lavoro e risarcimento del danno
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo
Appalto e intermediazione illecita

Infortuni sul lavoro e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 6 luglio 2020, n. 13912

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; P.M. Cimmino; Ric. A.P.; Controric. Z. S.a.S.;

Infortunio sul lavoro - Obblighi di prevenzione del datore di lavoro - Responsabilità del datore - Colpa del lavoratore concorrente con quella del datore - Misura del risarcimento - Riduzione - Sussiste

In materia di infortuni sul lavoro, qualora ricorrano comportamenti colposi del lavoratore, trova applicazione l'art. 1227 c.c.; la condotta incauta del lavoratore non comporta "concorso" di colpa idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni volta in cui la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia giuridicamente da considerare munita di «incidenza esclusiva» rispetto alla determinazione dell'evento dannoso. In tal senso, qualora risulti l'inosservanza, da parte del datore di lavoro, di specifici doveri informativi (o formativi) del lavoratore rispetto all'attività da svolgere, tali da rendere altamente presumibile che, ove quegli obblighi fossero stati assolti, il comportamento del lavoratore da cui è scaturito l'infortunio non vi sarebbe stato, non è possibile addossare al lavoratore, sotto il medesimo profilo, l'ignoranza delle circostanze che dovevano essere oggetto di informativa (o di formazione), al fine di fondare una colpa idonea a concorrere con l'inadempimento datoriale e che sia tale da ridurre, ai sensi dell'art. 1227 c.c., la misura del risarcimento dovuto.
NOTA
La Corte d'Appello di Bologna ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Forlì che aveva riconosciuto al lavoratore il risarcimento del danno patrimoniale e del danno biologico causati da un infortunio occorsogli durante lo svolgimento della prestazione lavorativa.
La Corte territoriale ha ritenuto che, oltre alla culpa in vigilando del datore di lavoro - che aveva fornito i dispositivi di protezione individuale e la relativa prescrizione di impiego ma aveva omesso di vigilare sul loro corretto utilizzo - fosse emerso dall'istruttoria, altresì, un concorso di colpa del lavoratore, il quale aveva omesso di osservare le regole di prudenza imposte dal contesto lavorativo.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso in Cassazione il lavoratore, deducendo che il concorso di colpa nella determinazione dell'infortunio dovesse ritenersi escluso dalla circostanza che il datore di lavoro non avesse vigilato sull'effettivo utilizzo delle misure di protezione e avesse dunque omesso di contrastare prassi lavorative non rispettose di regole antinfortunistiche.
La Suprema Corte ha ritenuto conforme la decisione della Corte territoriale al proprio orientamento sul punto e, richiamando un proprio precedente, ha affermato il principio di cui alla massima.
Il Giudice di legittimità ha quindi ritenuto coerente con tali principi la sentenza della Corte di Appello secondo cui l'omissione, da parte del lavoratore, dell'osservanza di prescrizioni rivolte ai lavoratori impegnati in un certo tipo di attività, in ottemperanza ad un principio di autoresponsabilità, lo abbia esposto ad un concorso di colpa, seppur minoritario.

Infortuni sul lavoro e risarcimento del danno /2

Cass. Sez. Lav. 6 luglio 2020, n. 13913

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; P.M. Cimmino; Ric. F.C.; Controric. A.P.C. S.r.l.

Infortunio sul lavoro - Sentenza penale di applicazione della pena emessa ex art. 444 c.p.p. - Rilevanza probatoria nel giudizio civile - Ammissibilità - Limiti - Fondamento

La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l'applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità.
NOTA
Un lavoratore era caduto da un trabattello (ponteggio mobile su ruote) da due metri di altezza, riportando trauma cranico e midollare a seguito del quale era deceduto.
In sede civile il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda proposta dagli eredi, condannava la società al risarcimento del danno - per violazione dell'articolo 2087 c.c. - calcolato secondo le tabelle di liquidazione del Tribunale di Milano, mentre in sede penale veniva emessa sentenza di patteggiamento ai sensi dell'articolo 444 c.p.p.
La Corte d'appello civile, accoglieva il gravame della società, e, in riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda proposta dagli eredi.
Per la Corte distrettuale la formazione del lavoratore era stata coerente con le mansioni dallo stesso svolte e le istruzioni, fornite ai dipendenti, erano state aggiornate ogni volta che intervenivano novità normative; secondo la Corte spettava al lavoratore l'onere di provare la pericolosità dell'ambiente di lavoro e l'esistenza della condotta causativa del danno, laddove nel caso in esame non era stata raggiunta certezza sul dato che i fatti causativi dell'incidente fossero stati quelli proposti nella ricostruzione degli eredi ed esisteva un'alternativa almeno altrettanto ragionevole che avrebbe escluso qualsiasi responsabilità datoriale.
Avverso la sentenza proponevano ricorso gli eredi addebitando alla Corte la violazione e falsa applicazione delle norme in materia di rischio elettivo, prova liberatoria e responsabilità del datore, avuto anche riguardo alla sentenza del Tribunale in sede penale.
Per la Corte distrettuale non era emersa la prova che l'infortunio ed il relativo danno subito dal lavoratore fossero derivati dalla mancata adozione di presidi di sicurezza, essendo stato evidenziato come non erano emersi dall'istruttoria dati oggettivi a conforto della traslazione del trabattello. D'altra parte era emerso che fosse mancata ogni certezza che i fatti causativi dell'incidente fossero quelli proposti nella ricostruzione degli eredi e che esisteva un percorso diverso rispetto a quello scelto dal lavoratore che avrebbe escluso qualsiasi responsabilità datoriale.
La Corte di cassazione ha accolto il ricorso sul presupposto che il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto il procedimento penale è stato definito con sentenza di patteggiamento potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale.
La sentenza impugnata, invece, non si era attenuta ai richiamati principi di diritto laddove ha sminuito l'efficacia probatoria della sentenza di patteggiamento per il delitto di cui agli artt. 589 c.p., commi 1 e 2; d'altra parte, ricorda la Suprema Corte, il giudice di primo grado aveva correttamente considerato il valore di mero argomento ad adiuvandum nell'ambito della complessiva ponderazione delle prove emerse dall'istruzione autonoma della controversia in sede civile. In conclusione: sentenza di merito cassata con rinvio alla Corte di Appello di Reggio Calabria in diversa composizione per procedere a nuovo esame della vicenda alla luce dei principi richiamati.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 1° luglio 2020, n. 13412

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetic; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.I. S.p.A.; Contr. D.E.;

Licenziamento disciplinare – Giusta causa – Fattispecie tipizzata nel CCNL – Rilevanza – Sproporzione tra addebito e sanzione – Illegittimità della sanzione

Ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa, in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo applicato, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (legge n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dell'autonomia delle parti, a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva", dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dell'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari.
NOTA
La Corte di appello di Firenze confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Lucca aveva accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro alla lavoratrice per aver posto in essere irregolarità in numerose operazioni di vendita di servizi, omettendo di redigere la modulistica aziendale e di effettuare la rendicontazione sul sistema informativo aziendale e versando in ritardo o tramite il proprio superiore gerarchico i corrispettivi riscossi dai clienti.
In particolare, la Corte territoriale aveva escluso che i fatti contestati alla lavoratrice, pacificamente sussistenti tra le parti, potessero annoverarsi tra le fattispecie cui il CCNL ricollegava la sanzione espulsiva, ritenendo, di contro, integrata la fattispecie cui il predetto CCNL collegava la sanzione conservativa della sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Conseguentemente, la Corte di Firenze aveva annullato il licenziamento intimato alla lavoratrice ed applicato la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, della Legge n. 300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92 del 2012.
Avverso tale decisione la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
In particolare, tra gli altri motivi, la società ha denunciato violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro affermando che la Corte territoriale avesse errato nell'applicazione della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 citato in quanto, da un lato, l'elencazione delle ipotesi di licenziamento per giusta causa effettuata dal CCNL doveva considerarsi meramente esemplificativa, dall'altro lato, il comportamento tenuto dalla lavoratrice, per la sua gravità, in ogni caso era idoneo ad interrompere il rapporto fiduciario tra le parti.
Secondo la tesi del datore di lavoro, la Corte territoriale aveva trascurato, in particolare, il fatto che i comportamenti contestati erano stati reiterati nel tempo, il notevole grado di affidamento riposto nella lavoratrice anche in considerazione della novità dei prodotti venduti alla clientela, il silenzio serbato dalla lavoratrice stessa sulle irregolarità risalenti nel tempo.
La Suprema Corte, per quanto qui rileva, anzitutto ricorda che in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.
Precisa, poi, che spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo.
Ciò premesso, la Corte, precisa che "il principio generale subisce un'eccezione laddove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa, in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo applicato, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (legge n. 604 del 1966, art. 12)".
Conseguentemente, con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ritiene conforme ai principi sopra richiamati l'operato della Corte distrettuale che ha accertato se sussisteva la nozione legale di giusta causa di licenziamento, anche alla luce delle fattispecie previste dal CCNL di settore e sulla base della scala valoriale ivi contenuta, e, pervenuta alla esclusione della ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, ha svolto – ai fini della scelta del sistema sanzionatorio da applicare – una disamina sulla ricorrenza delle due condizioni previste dall'art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (dovendo, in assenza, applicare il regime generale costituito dalla c.d. tutela risarcitoria forte di cui al comma 5 del medesimo articolo).
Conclusivamente, il ricorso della società viene rigettato.

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Cass. Sez. Lav. 2 luglio 2020, n. 13625

Pres. Nobile; Rel. Piccone; P.M. Cimmino; Ric. P.S.; Controric. J. S.r.l.

Licenziamento – Plurimi errori e inadempienze nello svolgimento delle mansioni – Scarso impegno – Mancanza di diligenza – Neghittosità – Giusta causa – Insussistenza – Giustificato motivo soggettivo – Sussistenza

Sussiste il giustificato motivo soggettivo – e non la giusta causa – di licenziamento del dipendente che, in ragione della mancanza di diligenza e impegno professionale, commetta plurimi errori nello svolgimento delle attività assegnategli fin dalla sua assunzione e rispetto alle quali abbia ricevuto anche una formazione progressiva.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano, in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Pavia, dichiarava la legittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato al lavoratore in ragione di plurime inadempienze e trascuratezze nella redazione del piano finanziario, che costituiva una delle mansioni attribuite al dipendente sin dalla sua assunzione e in relazione alla quale aveva ricevuto ampia formazione. In particolare, la Corte d'Appello riteneva che le ragioni alla base del licenziamento non costituissero una giusta causa di recesso, non essendo tali da incidere sul vincolo fiduciario, bensì integrassero una fattispecie di inadempimento e neghittosità rilevanti sotto il profilo di una affidabile resa lavorativa, in quando determinati da mancanza di diligenza e impegno del lavoratore.
Il dipendente proponeva ricorso per Cassazione avverso la pronuncia della Corte d'Appello, eccependo l'omesso esame e l'omessa motivazione circa la mancanza di diligenza e impegno.
La Suprema Corte rigetta il motivo di censura, ribadendo dapprima che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice. In ogni caso, la Corte di cassazione conferma che il giudice di merito aveva compiutamente valutato le risultanze istruttorie e, sulla base di queste, aveva correttamente escluso la sussistenza di una giusta causa di recesso. Al contempo, la Corte d'Appello aveva però ritenuto sussistente un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, riscontrando un difetto di diligenza ed un'incapacità rilevanti nella valutazione della resa lavorativa in ragione degli errori e gravi imperfezioni riscontrati nel documento redatto dal ricorrente.

Appalto e intermediazione illecita

Cass. Sez. Lav. 8 luglio 2020, n. 14371

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. A.A.; Controric. U.S. S.c.p.a.

Appalto - Intermediazione illecita - Presunzione legale - Insussistenza

Con l'entrata in vigore del d. lgs. n. 276 del 2003 non è più richiesto che l'appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione, per cui anche se impiega macchine ed attrezzature di proprietà dell'appaltante, è possibile provare altrimenti - purché vi siano apprezzabili indici di autonomia organizzativa - la genuinità dell'appalto così, mentre in appalti che richiedono l'impiego di importanti mezzi o materiali cd. "pesanti", il requisito dell'autonomia organizzativa deve essere calibrato, se non sulla titolarità, quanto meno sull'organizzazione di questi mezzi, negli appalti cd. "leggeri" in cui l'attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all'appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti.
NOTA
La Corte di appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Roma che aveva rigettato la domanda del ricorrente che chiedeva di essere riconosciuto dipendente della società committente, avendo egli lavorato dal maggio 2001 al febbraio 2009 in favore di quest'ultima, in virtù dei contratti di appalto stipulati tra la società committente e la società appaltatrice, formale datrice di lavoro.
Secondo la Corte di appello, infatti, l'istruttoria espletata durante il primo grado del giudizio permetteva di smentire che la fattispecie esaminata configurasse un appalto illecito ex art. 1 l. n. 1369/60 ovvero ex art. 29 comma 3 bis d. lgs. n. 276/2003.
Il dipendente della società appaltatrice, pertanto, impugnava la sentenza della Corte di appello.
La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, afferma che «nell'impugnata sentenza risulta essere stato coerentemente applicato il principio secondo cui in tema d'interposizione nelle prestazioni di lavoro, l'utilizzazione, da parte dell'appaltatore, di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto) vietata dall'art. 1, primo comma, della legge n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l'apporto dell'appaltatore; la sussistenza (o no) della modestia di tale apporto (sulla quale riposa una presunzione "iuris et de iure") deve essere accertata in concreto dal giudice, alla stregua dell'oggetto e del contenuto intrinseco dell'appalto; con la conseguenza che (nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da parte dell'appaltante) l'anzidetta presunzione legale assoluta non è configurabile ove risulti un rilevante apporto dell'appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in genere per sostenere il costo del lavoro), know how, software e, in genere, beni immateriali, aventi rilievo preminente nell'economia dell'appalto (tra le altre v. Cass. n. 25064 del 2013; Cass. n. 16488 del 2009; Cass. n. 4585 del 1994)».

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