Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore/1
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore/2
Natura del rapporto tra medico e casa di cura
Revoca unilaterale del datore dei buoni pasto
Licenziamento disciplinare


Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore/1

Cass. Sez. Lav. 15 luglio 2020, n. 15112

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Cimmino; Ric. C.G.; Contr. I.F. S.r.l. in Liquidazione e M.A. S.p.A.;

Infortunio sul lavoro – Responsabilità a carico del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. – Attività pericolosa – Sussiste – Assenza di prescrizioni specifiche –Irrilevanza

La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, tuttavia non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica dei lavoratori nei luoghi di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

NOTA
La Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore in conseguenza di un infortunio occorsogli durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, per effetto di una caduta mentre era intento a movimentare dei pannelli su una scala a pioli.
La Corte di Appello ha escluso la responsabilità del datore di lavoro, non ritenendo possibile onerarlo di una cautela, quale l'adozione di cinture di sicurezza, espressamente richiesta, da norme di legge, per altezze superiori a quelle in cui operava il lavoratore.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso in Cassazione il lavoratore, deducendo, ai fini della sussistenza della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., l'irrilevanza della violazione di disposizione normative specifiche. Il datore di lavoro avrebbe quindi dovuto adottare tutti gli accorgimenti necessari per tutelare l'integrità psicofisica dei lavoratori.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso, evidenziando come la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi imposti da norme di legge ma anche suggeriti da conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Ne consegue che il lavoratore che ritiene di aver subito un danno alla salute deve provare l'esistenza del danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale tra l'uno e l'altro, ma è comunque onere del datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Il Giudice di legittimità, richiamando il proprio precedente orientamento in materia, ha quindi ribadito il principio per cui la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva ma non può neppure essere limitata alle ipotesi di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, atteso che deve essere sanzionata la stessa omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte e a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro (Cass. n. 24742 del 2018).
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha quindi ritenuto erronea la sentenza di secondo grado, per non aver considerato che la movimentazione di pannelli su una scala a pioli dovesse ritenersi quale attività non adeguata e pericolosa che, come tale, imponeva l'adozione di specifici sistemi di protezione e ancoraggio da parte del datore di lavoro.

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore/2

Cass. Sez. Lav. 15 luglio 2020, n. 15107

Pres. Berrino; Rel. Leo; P.M. Celeste; Ric. O.R.; Controric. C. P.A.

Infortunio sul lavoro – Condotta del lavoratore abnorme, esorbitante – Responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore – Esonero – Ammissibilità

In caso di infortunio sul lavoro, la condotta del lavoratore può comportare un esonero totale dell'imprenditore da ogni responsabilità, quando presenti i caratteri di abnormità ed esorbitanza, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.

NOTA
La Corte di appello rigettava il gravame del lavoratore avverso la sentenza del Tribunale che aveva respinto il ricorso proposto contro la società al fine di ottenere il risarcimento del danno subito a seguito dell'infortunio sul lavoro.
Nel caso di specie, il dipendente era rimasto ferito dopo aver inserito la mano tra le sbarre per potere azionare il comando di apertura del cancello del parcheggio aziendale posto all'esterno, essendo non funzionante il comando nella parte interna.
Per la Corte, non era stata fornita la prova da cui desumere che la società fosse stata resa edotta del malfunzionamento del cancello e della necessità da parte dei suoi dipendenti di eseguire la predetta manovra durante il turno notturno per potere aprire il cancello ed uscire dal parcheggio.
Avverso la sentenza della Corte ha proposto ricorso il lavoratore ma la Cassazione lo ha rigettato.
Per la Suprema Corte la natura sussidiaria dell'articolo 2087 c.c. e la sua interpretazione estensiva non possono spingersi sino al punto di configurare una responsabilità oggettiva del datore di lavoro per ogni infortunio occorso al dipendente, poiché la responsabilità datoriale deve essere ricollegabile ad un comportamento colpevole riconducibile alla violazione di uno specifico obbligo di sicurezza.
Inoltre, per la Cassazione, i giudici di seconda istanza avevano correttamente valutato la distribuzione dell'onere della prova, sul presupposto implicito che, non potendo discendere dall'art. 2087 c.c. un obbligo per il datore di lavoro di impedire comportamenti anomali ed imprevedibili dei dipendenti, la mera verificazione di un danno non è di per sé sufficiente a fare scattare, a carico del datore medesimo, l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l'evento.
Considerato quanto sopra, con riferimento al caso di specie, dall'istruttoria espletata, era emerso da una parte che il ricorrente non avesse mai informato la società dell'impossibilità di apertura dall'interno del cancello automatico, né risulta che la stessa fosse venuta a conoscenza di detto malfunzionamento; dall'altra che il lavoratore avesse posto in essere una condotta considerata esorbitante dai limiti del proprio lavoro, poiché, dopo avere concluso la giornata lavorativa, ha introdotto una mano nel cancello automatico, rimanendo impigliato tra le sbarre.

Natura del rapporto tra medico e casa di cura

Cass. Sez. Lav. 14 luglio 2020, n. 14975

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Sanlorenzo; Ric. V.T. S.r.l.; Controric. G.A.

Amministrazione straordinaria – Pretese meramente economiche del lavoratore - Competenza - Tribunale fallimentare - Sussiste - Domanda di accertamento della natura del rapporto - Competenza - Tribunale del lavoro - Sussiste

Con riferimento alle controversie di lavoro, il discrimen tra la sfera di cognizione del giudice del lavoro e quella del giudice fallimentare è individuato nelle rispettive speciali prerogative: del primo, quale giudice del rapporto, e del secondo, quale giudice del concorso. Occorre quindi distinguere fra le azioni promosse dal lavoratore all'unico scopo di conseguire la soddisfazione di una pretesa meramente economica – per le quali è competente il giudice fallimentare –, da quelle finalizzate ad ottenere una pronuncia di mero accertamento o costitutive (ad es. l'accertamento della nullità o l'annullamento del licenziamento) – per le quali è competente il giudice del lavoro.

Autonomia/Subordinazione – Rivendicazione natura subordinata del rapporto di lavoro – Medico – Casa di cura – Subordinazione attenuata – Indici sussidiari – Accertamento in concreto – Necessità

Nei casi in cui – in ragione della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e dell'atteggiarsi del rapporto di lavoro –l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari – come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una seppur minima struttura imprenditoriale – elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi probatori della subordinazione.

Autonomia/Subordinazione – Rivendicazione natura subordinata del rapporto di lavoro – Nomen iuris – Rilevanza assorbente – Esclusione – Modalità di svolgimento della prestazione – Rilevanza – Modifica dell'iniziale pattuizione – Ammissibilità

Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro quale subordinato o autonomo, essendo l'iniziale contratto causa di un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il "nomen iuris" in esso contenuto non costituiscono fattori assorbenti, diventando l'esecuzione, per il suo fondamento nella volontà inscritta in ogni atto di esecuzione, la sua inerenza all'attuazione della causa contrattuale e la sua protrazione, non solo strumento d'interpretazione della natura e della causa del rapporto di lavoro, bensì anche espressione di una nuova eventuale volontà delle parti che, in quanto posteriore, modifica la volontà iniziale conferendo al rapporto un nuovo assetto negoziale.

NOTA
La Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosceva la natura subordinata del rapporto di lavoro tra il medico – ricorrente – e la casa di cura – resistente in amministrazione straordinaria – e condannava la datrice di lavoro al pagamento di differenze retributive e TFR.
Con il primo motivo di ricorso, la casa di cura eccepiva l'incompetenza funzionale del giudice del lavoro stante l'intervenuta ammissione della società alla procedura di amministrazione straordinaria, con conseguente improcedibilità della domanda volta ad ottenere la condanna al pagamento di differenze retributive e TFR.
La Corte di cassazione ritiene il motivo parzialmente fondato.
Premesso che, con specifico riferimento alle controversie di lavoro, il discrimen tra le sfere di cognizione del giudice del lavoro e del giudice del fallimento (omologamente, nei casi di amministrazione straordinaria) è stato individuato nelle rispettive speciali prerogative – il primo quale giudice del lavoro e il secondo quale giudice del concorso (in senso conforme, Cass. 18 giugno 2018, n. 15982, Cass., 20 luglio 2004, n. 13496, Cass. 21 dicembre 2001, n. 16183) –, la Suprema Corte conclude che occorre distinguere fra le azioni promosse dal dipendente al fine di ottenere la soddisfazione di una pretesa meramente economica, per le quali è competente il giudice fallimentare, da quelle finalizzate ad ottenere una pronuncia di accertamento o costitutiva, per le quali è competente il giudice del lavoro.
Nel caso concreto, il lavoratore per far valere il proprio credito nei confronti della procedura avrebbe quindi dovuto chiedere l'ammissione al passivo. In assenza di istanza di ammissione al passivo, tutte le domande di condanna al pagamento di una somma di denaro risultano improcedibili con conseguente cassazione della sentenza impugnata, errata in parte qua.
Con diverso motivo di ricorso, la datrice di lavoro censurava la sentenza di merito per erronea applicazione dell'art. 2094 c.c. e, in particolare, per aver privilegiato nella verifica della natura subordinata o meno del rapporto i cd. "indici sussidiari di subordinazione" (orario di lavoro definito dalla casa di cura, utilizzo di strumenti e macchinari di quest'ultima, necessità di richiedere i permessi ed ottenere l'autorizzazione, ecc.), tralasciando invece la qualificazione in termini di collaborazione autonoma che le parti avevano conferito al contratto di lavoro.
La Suprema Corte ritiene invece infondato questo motivo di censura in quanto il giudice di merito, tenuto conto della particolare tipologia di attività svolta dal medico – non richiedente l'esercizio da parte del datore di lavoro di un potere gerarchico concretizzantesi in ordini e direttive né nell'esercizio del potere disciplinare – aveva correttamente ritenuto che l'esistenza della subordinazione doveva valutarsi concretamente sulla base dell'intensità dell'etero-direzione, eccedente le mere esigenze di coordinamento tra medico e struttura sanitaria. In particolare, dal compendio probatorio era emerso che la casa di cura stabiliva l'orario di lavoro del medico, che gli strumenti e le apparecchiature utilizzate appartenevano a quest'ultima, che aveva anche la possibilità di scegliere la tipologia di attività da far svolgere al medico (sala operatoria, attività diagnostica o ambulatoriale), e che il medico era tenuto a chiedere eventuali permessi, che dovevano essere accordati dalla società.
Ribadendo il proprio consolidato orientamento, la Corte chiarisce che il requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – che lo differenzia da quello autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall'emanazione di ordini specifici e dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo dell'esecuzione dell'attività lavorativa. L'esistenza o meno di tale vincolo deve essere valutata in concreto con riferimento alla tipologia di incarico conferito al lavoratore e alle modalità di svolgimento dello stesso, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo.
Né è idoneo a surrogare questo criterio il nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto, che pur costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo qualora esso non sia in contrasto con le concrete modalità di svolgimento del rapporto (in senso conforme, Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500). Del resto, ai fini della qualificazione del rapporto, il nomen iuris non è un fattore assorbente, diventando invece l'esecuzione dell'attività, per il suo fondamento nella volontà insita in ogni atto di esecuzione, la sua inerenza all'attuazione della causa contrattuale e la sua protrazione, non solo uno strumento di interpretazione della natura e della causa del rapporto di lavoro, ma anche l'espressione di una eventuale nuova e diversa volontà delle parti che, in quanto successiva, modifica quella iniziale e conferisce al rapporto un nuovo assetto negoziale (in senso conforme, Cass. 5 luglio 2006, n. 15327, Cass. 26 giugno 2001, n. 8407, Cass. 21 luglio 2000, n. 9617, Cass. 10 aprile 2000, n. 4533).
Sotto diverso profilo, quando l'elemento dell'assoggettamento alle direttive altrui non è agevolmente apprezzabile a causa della tipologia di mansioni svolte e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre far riferimento a indici sussidiari – come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa con l'assetto organizzativo imposto dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una seppur minima struttura imprenditoriale – che, seppur privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione (in senso conforme, Cass. 25 febbraio 2019, n. 5436, Cass. 15 giugno 2009, n. 13858, Cass. 25 maggio 2004, n. 10043, Cass. 7 marzo 2003, n. 3471, Cass. 26 agosto 2000, n. 11182, Cass. SS.UU., 30 giugno 1999, n. 379).
La decisione della Corte d'Appello risulta coerente con i suddetti principi, avendo riconosciuto prevalenti le modalità concrete di svolgimento della prestazione lavorativa, tenendo conto di indici sussidiari legati alle caratteristiche dell'attività svolta dal lavoratore che, alla luce dei suoi elevati contenuti intellettuali e dei connessi profili di responsabilità professionale in capo al medico, non ammette un penetrante potere direttivo da parte della struttura sanitaria.

Revoca unilaterale del datore dei buoni pasto

Cass. Sez. Lav. 28 luglio 2020, n. 16135

Pres. Berrino; Rel. Patti; Ric. C. G.; Controric. S. S.p.A.

Buoni pasto - Natura retributiva - Esclusione - Revoca unilaterale del datore - Ammissibilità - Prassi aziendale - Irrilevanza

I buoni pasto non sono un elemento della retribuzione "normale", ma un'agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, pertanto non rientranti nel trattamento retributivo in senso stretto; sicché, il regime della loro erogazione può essere variato anche per unilaterale deliberazione datoriale, in quanto previsione di un atto interno, non prodotto da un accordo sindacale

NOTA
Un dipendente domandava al Tribunale di Campobasso di accertare l'illegittimità della decisione del proprio datore di lavoro che aveva revocato unilateralmente l'erogazione dei buoni pasto fino a quel momento concessi e, quindi, di condannarlo alle relative differenze retributive. Il Tribunale di Campobasso rigettava il ricorso del dipendente con sentenza che veniva poi confermata anche dalla Corte di appello di Campobasso.
Il dipendente, quindi, impugnava anche la sentenza della Corte di appello.
La Corte di Cassazione decideva come da massima sopra riportata, rigettando integralmente il ricorso del dipendente e sottolineando che «l'interpretazione contrapposta dal lavoratore, di erogazione dei buoni pasto "in funzione di un rapporto contrattuale", anche sulla base di una reiterazione nel tempo tale da integrare una prassi aziendale (pure viziata da una connotazione di novità, non parlandone la sentenza impugnata, né avendone il ricorrente offerto indicazione di una sua prospettazione negli atti dei precedenti gradi), non inficia il presupposto della natura non retributiva dell'erogazione».

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 16 luglio 2020, n. 15229

Pres. Nobile; Rel. Piccone; P.M. Celeste; Ric. S.G.; Controric. B.B. S.p.A.

Licenziamento per giusta causa – Contestazione disciplinare – Immediatezza – Relatività

Nel licenziamento per giusta causa il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti siano molto laboriosi e richiedano uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall'abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l'affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell'illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell'azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente.

NOTA
La Corte d'Appello di Caltanissetta confermava la sentenza di primo grado che aveva respinto l'impugnazione del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore.
I giudici di merito sottolineavano l'insussistenza degli estremi per la configurabilità della dedotta tardività della contestazione disciplinare (giunta a distanza di mesi dagli eventi contestati), alla luce della sostanziale relatività della immediatezza della stessa, anche in considerazione della complessità organizzativa della società datrice, escludendo, altresì, in merito alla incisiva lesione fiduciaria contestata, il rilievo della mancata affissione del codice disciplinare e l'infondatezza della censura inerente l'irrogazione del licenziamento in costanza di malattia; ha, quindi, confermato la ricorrenza degli estremi della giusta causa, segnatamente, alla luce del ruolo di responsabilità rivestito dal dipendente.
Il lavoratore proponeva ricorso per cassazione avverso la pronuncia della Corte d'Appello insistendo, in particolare, sull'eccezione di intempestività della contestazione con cui era stato avviato il procedimento disciplinare nei suoi confronti conclusosi, poi, con il licenziamento.
La Suprema Corte ritiene questo motivo di censura infondato, ribadendo il principio ormai consolidato secondo cui il recesso datoriale e le preliminari contestazioni, ove ricorra una giusta causa di recesso basata su condotte aventi rilievo disciplinare, devono essere immediate, ossia cronologicamente vicine alla effettiva conoscenza della commissione del fatto nella sua massima estensione e gravità.
Nondimeno la S.C. osserva che, secondo la giurisprudenza, immediatezza e tempestività della contestazione sono concetti relativi nel senso che la loro valutazione deve tener conto della complessità del fatto e degli accertamenti nonché della complessità della struttura organizzativa dell'impresa datrice di lavoro perché è sempre ammissibile un lasso temporale più o meno lungo liberamente valutabile dal giudice, tra la conoscenza del fatto e l'avvio della procedura disciplinare.
Nel caso di specie, la Cassazione evidenzia che deve essere considerata, da un lato, la complessità della struttura organizzativa del datore di lavoro, dall'altro lato, la complessità degli accertamenti che si sono resi necessari per l'istruttoria, venendo in rilievo la violazione di prescrizioni di regole imposte dal datore di lavoro al fine di agevolare indebitamente soggetti nei cui riguardi il lavoratore, secondo la contestazione di addebito, si trovava in una situazione di conflitto di interessi, avendo
con gli stessi, rapporti di debito-credito.
In tale contesto, soltanto all'esito di lungo e complesso accertamento il datore ha potuto avere cognizione piena della gravità ed il significato complessivo della condotta posta in essere dal proprio dipendente.
Conclusivamente, la Corte di Cassazione – tenuto conto di tali osservazioni e precisando, da ultimo, che, in ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito e come tale non sindacabile in Cassazione, ove immune da vizi logici – ha rigettato il ricorso del lavoratore.

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