Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Diritto di critica e licenziamento per giusta causa
Licenziamento per requisiti pensionistici
Procedimento disciplinare, procedura
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Sicurezza sul lavoro negli appalti

Diritto di critica e licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 6 agosto 2020, n. 16786

Pres. Di Cerbo; Rel. Arienzo; P.M. Celeste; Ric. P.G.; Controric. B.D.S. S.p.A.

Licenziamento per giusta causa – Proporzionalità – Fattispecie non contemplata dal CCNL – Reintegrazione – Illegittimità – Tutela indennitaria – Applicabilità

La valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato in giudizio comporta l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, solo qualora la fattispecie accertata sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale caso la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa, per le quali l'art. 18, comma 5, L. 300/1970 prevede la tutela indennitaria c.d. "forte".
Licenziamento per giusta causa – Indennità risarcitoria ex art. 18, comma 5, L. 300/1970 – Aliunde perceptum – Deduzione – Non applicabilità
La mancata previsione della deducibilità dell'aliunde perceptum dall'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma 5, L. 300/1970, rispecchia la diversità tra l'indennità de qua e quella prevista dall'art. 18, comma 4, L. 300/1970, dalla quale deve invece essere dedotto l'aliunde perceptum. Difatti, nell'ipotesi di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/70, oltre alla reintegrazione, è previsto il pagamento dell'indennità de qua dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione, laddove, nell'ipotesi di cui al comma 5, è prevista la corresponsione di un'indennità (omnicomprensiva) che tenga già conto anche delle condizioni delle parti, e quindi presumibilmente pure della eventuale situazione lavorativa del dipendente dal punto di vista della collaborazione eventualmente prestata per la riduzione del danno.
Licenziamento per giusta causa – Diritto di critica nei confronti del datore di lavoro – Lesione del vincolo fiduciario – Continenza formale – Lesione della reputazione – Necessità
L'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro può essere considerato comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro, e costituire giusta causa di licenziamento, quando avvenga con modalità tali che, superando i limiti della continenza formale, si traducano in una condotta gravemente lesiva della reputazione, con violazione dei doveri fondamentali alla base dell'ordinaria convivenza civile.
NOTA
Il Tribunale di Sassari, confermando l'ordinanza resa all'esito della fase sommaria del giudizio, riteneva che il dipendente avesse fatto un uso illecito della posta elettronica aziendale, anche tenuto conto del tenore volgare e ingiurioso dell'email inviata, e che tale uso fosse contrario sia ai doveri contrattuali previsti dal CCNL applicato, sia al codice etico ed alla normativa aziendale in tema di utilizzo della posta elettronica aziendale. Al contempo, il Giudice di merito riteneva la sanzione espulsiva sproporzionata rispetto alla condotta e, di conseguenza, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra il dipendente e la società, con condanna al pagamento dell'indennità ex art. 18, comma 5, L. 300/1970.
La Corte d'appello di Cagliari, in parziale accoglimento dell'appello del lavoratore e di quello della società, condannava quest'ultima al pagamento dell'indennità di preavviso, disponendo che dall'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma 5, L. 300/1970, fosse detratto quanto percepito per l'attività lavorativa prestata.
Il dipendente proponeva ricorso per Cassazione, cui resisteva la società che interponeva altresì ricorso incidentale.
Con il primo motivo, il lavoratore denunciava violazione dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970, per avere la Corte d'appello negato la reintegrazione, ritenendo che l'assenza nel contratto collettivo della tipizzazione delle condotte sanzionate con provvedimenti conservativi comportasse l'applicabilità di tale norma.
Il motivo viene rigettato dalla Suprema Corte, in coerenza con i principi dalla stessa elaborati in tema di applicabilità della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, come modificato dalla Legge Fornero.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, la valutazione di non proporzionalità tra fatti contestati e licenziamento comporta la reintegrazione soltanto qualora la fattispecie concreta sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale ipotesi, la sproporzione tra condotta e sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa, per le quali l'art. 18, comma 5, L. 300/1970, prevede soltanto la tutela indennitaria c.d. forte (in senso conforme, Cass., 5 dicembre 2019, n. 31839; Cass., 19 luglio 2019, n. 19578; Cass., 14 dicembre 2018, n. 32500; Cass., 12 ottobre 2018, n. 25534; Cass. 25 maggio 2017, n. 13178).
La limitazione della tutela reintegratoria alle sole ipotesi in cui il contratto collettivo tipizza la condotta e prevede l'applicazione di una sanzione conservativa è coerente con la lettera dell'art. 18, quarto comma, L. 300/1970, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano la tutela reintegratoria – che costituisce un'eccezione rispetto alla regola generale rappresentata dalla tutela indennitaria –, nonché con la ratio della norma, in cui la tutela reintegratoria presuppone l'abuso consapevole del potere disciplinare e una sicura e intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, dell'illegittimità del provvedimento espulsivo in ragione dell'insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare il licenziamento (in senso conforme, Cass., 19578/2019 cit.; Cass., 9 maggio 2019, n. 12365).
In subordine, il lavoratore lamentava la violazione e falsa applicazione dell'art. 18, comma 5, L. 300/1970, ritenendo che la natura dell'indennità di cui a tale norma fosse inconciliabile con la facoltà (di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970) di detrarre dal risarcimento l'eventuale aliunde perceptum.
In accoglimento di questo motivo di ricorso, la Corte di cassazione ritiene che l'aliunde perceptum si riferisca pacificamente soltanto all'indennità di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, e non a quella di cui al comma 5 della medesima norma. In particolare, secondo la Suprema Corte, nell'ipotesi di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/70, è previsto il pagamento dell'indennità de qua dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione, laddove invece, nell'ipotesi di cui all'art. 18, comma 5, è prevista la corresponsione di un'indennità (omnicomprensiva) che tenga già conto anche delle condizioni delle parti, e quindi presumibilmente pure della eventuale situazione lavorativa del dipendente. La mancata espressa previsione di deduzione dell'aliunde perceptum nel secondo dei due casi rispecchia la diversità delle due situazioni.
Con il proprio ricorso incidentale, la società lamentava invece la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2019 c.c. e dell'art. 18, L. 300/1970, assumendo che le condotte oggetto di contestazione fossero state erroneamente reputate non idonee a fondare un licenziamento per giusta causa. In particolare, secondo la società il contenuto dell'email inviata dal lavoratore durante l'orario di lavoro e usando il sistema informativo aziendale, oltre a violare il codice etico e le disposizioni aziendali in materia di utilizzo della posta elettronica, era in contrasto con i principi di disciplina, dignità, moralità e lealtà che devono informare il comportamento dei prestatori di lavoro e superava palesemente i limiti del diritto di critica.
La Corte di cassazione, disattendendo il motivo di ricorso, richiama il proprio consolidato orientamento secondo cui l'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è idoneo a ledere il legame fiduciario alla base del rapporto di lavoro – e quindi a costituire una giusta causa di licenziamento – soltanto quando avvenga con modalità che eccedano i limiti della continenza formale e si traduca in una condotta gravemente lesiva della reputazione aziendale, con violazione dei doveri fondamentali alla base dell'ordinaria convivenza civile (in tal senso, Cass. 6 giugno 2018, n. 14527; Cass. 10 luglio 2018, n. 18176; Cass. 18 gennaio 2019, n. 1379).
Nel caso in oggetto, i giudici di merito avevano correttamente applicato questo principio, ritenendo non sussistente la giusta causa di recesso giacché la condotta del dipendente era costituita da un'unica e-mail, inviata ad un solo collega della società capogruppo, che non integrava vessazioni né plurime violazioni. non erano rivolta ad un superiore gerarchico ed era dettata da insofferenza per il comportamento prevaricatore asseritamente tenuto dal collega nei confronti di un amico.

Licenziamento per requisiti pensionistici

Cass. Sez. Lav. 8 Settembre 2020, n. 18662

Pres. Berrino; Rel. Lorito; P.M. Celentano; Ric. C.; Controric. B.G. S.p.a.

Licenziamento per requisiti pensionistici - Pensione di vecchiaia - Recesso ad nutum - Condizioni - Godimento del trattamento pensionistico - Necessità -Mera Maturazione - Insufficienza

La possibilità del recesso ad nutum, con sottrazione del datore all'applicabilità del regime dell'art. 18 I. n. 300 del 1970, è condizionata non dalla mera maturazione dei requisiti anagrafici e contributivi idonei per la pensione di vecchiaia, bensì dal momento in cui la prestazione previdenziale è giuridicamente conseguibile dall'interessato di guisa che il licenziamento intimato precedentemente non è sottratto all'applicazione dell'art.18 pro tempore vigente. In una società come quella attuale, in cui si hanno disoccupazione e sottoccupazione, l`assenza di una piena tutela del diritto al lavoro (per difetto di garanzie di stabilità del posto) per i lavoratori che abbiano già conseguito la pensione di vecchiaia trova ragionevole giustificazione nel godimento, da parte loro, di tale trattamento previdenziale per cui il licenziamento ad nutum è ammissibile solo in quanto si "goda" del trattamento pensionistico di vecchiaia e non è sufficiente che si sia in attesa di esso, seppure la fruizione sia procrastinata di soli 12 mesi (ovvero all`apertura della relativa finestra)
NOTA
Un lavoratore veniva licenziato a far data dal 1° aprile 2011, per raggiungimento dei requisiti pensionistici, avendo compiuto 65 anni il 12 marzo 2011.
Rivoltosi all'INPS, in data 30 agosto 2011, per l'erogazione della pensione, il dipendente vedeva respinta la sua domanda, in quanto - secondo l'Istituto - pur avendo egli maturato i requisiti contributivi e anagrafici richiesti dalla normativa in vigore, bisognava comunque che attendesse l'apertura della cd. prima finestra utile per la concreta fruizione del diritto, fissata per il 1° aprile 2012.
Il lavoratore si rivolgeva quindi al Tribunale di Roma sostenendo l'illegittimità del licenziamento, e il suo diritto a proseguire il rapporto sino all'1/4/2012. Sia il Tribunale che la Corte territoriale, in sede di gravame, accoglievano solo parzialmente la domanda attorea.
In particolare la Corte distrettuale condannava la società datrice alla corresponsione del trattamento retributivo e contributivo solo dall'1/4/2011 al 30/9/2011 e non invece fino all'apertura della "finestra" della pensione di vecchiaia.
A fondamento di tale convincimento la Corte distrettuale poneva l'art. 71 c.c.n.l. di settore secondo cui per la risoluzione ad nutum del rapporto di lavoro per raggiungimento dei requisiti pensionistici, occorreva solo che il lavoratore avesse compiuto 65 anni e fosse in possesso dei requisiti pensionistici di vecchiaia, non essendo invece necessario che fosse "in concreto, ammesso a pensione".
Inoltre, la Corte richiamava anche la circolare Inps n. 5702 del 6/3/2008 all'interno della quale si disponeva che ai lavoratori che avessero conseguito il diritto alla pensione di anzianità e per i quali si fosse aperta la relativa finestra di accesso, non dovevano applicarsi le finestre di accesso per il trattamento pensionistico di vecchiaia, sicchè gli interessati potevano essere collocati in pensione di vecchiaia sin dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda. Ebbene, il ricorrente aveva già raggiunto nel 2010 i requisiti di età/contribuzione previsti per quell'anno dalla legge per la pensione di anzianità e per lui la finestra per usufruire di questa pensione di anzianità si era aperta già il 1/1/2011. In termini pratici ciò significava che se egli avesse presentato domanda amministrativa nel marzo dello stesso anno (ossia nel mese in cui aveva compiuto 65 anni e aveva maturato il diritto anche alla pensione di vecchiaia), avrebbe potuto conseguire il relativo trattamento pensionistico proprio dal 1°aprile 2011; avendo, tuttavia, avanzato l'istanza il 30/8/2011, aveva dovuto attendere l'apertura della "finestra" di dodici mesi per la erogazione della pensione di vecchiaia.
Avverso tale decisione il lavoratore interponeva ricorso per Cassazione, ritenuto dai Giudici di legittimità fondato.
In particolare, il lavoratore criticava gli approdi ai quali era pervenuta la Corte di merito, ritenendo che la decisione fosse stata presa solo sulla base del messaggio Inps n. 5702/2008 che però rappresentava una deroga ad una norma di legge (L. 24 dicembre 2007, n. 247, art. 1, n. 5, lett. b), di carattere amministrativo, e, come tale, impossibilitata ad incidere su norme di livello legislativo. Il lavoratore osserva inoltre che, anche ratione temporis, le disposizioni applicate dalla Corte capitolina non si attagliavano alla fattispecie, regolata dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78. Tale decreto, all'art. 12, commi 1 e 2, modificando il predetto regime, aveva stabilito - senza possibilità di deroga e con effetto dal 1/1/2011 - che i lavoratori dipendenti conseguono il diritto alla decorrenza del trattamento pensionistico solo ed esclusivamente trascorsi dodici mesi dalla data di maturazione dei previsti requisiti. Quindi, avendo egli maturato i requisiti propri del trattamento pensionistico di vecchiaia il 12/3/2011, il diritto alla fruizione del relativo trattamento pensionistico sorgeva solo trascorsi dodici mesi da tale data, quindi in data 1/4/2012, così come comunicato dell'Inps con missiva del 14/9/2011.
Il ricorrente prospettava infine la violazione dell'art. 71, lett. B. c.c.n.l. di settore (secondo cui la risoluzione del rapporto può avvenire per il lavoratore ultrasessantenne che sia in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbia optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro) sul rilievo che alla data dell'1/4/2011 egli non era in possesso dei requisiti pensionistici che comprendevano anche la "finestra", la quale si sarebbe aperta solo l'1/4/2012.
Con la sentenza in epigrafe la S.C. accoglie il ricorso del lavoratore, fornendo, peraltro, un dettagliato inquadramento della questione delibata.
Innanzitutto, secondo la S.C., per un corretto inquadramento della fattispecie, occorre muovere dalla lettura della L. n. 108 del 1990, art. 4, comma 2, secondo cui "Le disposizioni di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 (…) non si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro". La norma, pur in mancanza dell'esplicito riferimento alla pensione di vecchiaia, si riferisce specificamente a quest'ultima per cui è soltanto la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia che incide sul regime del rapporto di lavoro, consentendo al datore di lavoro il recesso ad nutum.
In secondo luogo, si legge nella sentenza in epigrafe, sia per ciò che riguarda la pensione di anzianità sia quella di vecchiaia, il diritto alla pensione si consegue solo decorso un certo periodo di tempo (le cd. "finestre"), con la conseguenza che il decorrere del tempo rappresenta un elemento costitutivo di quello stesso diritto, il quale, pertanto, si perfeziona soltanto nel momento in cui matura la data di decorrenza fissata dalla legge. E' quindi irrilevante, per l'insorgenza di siffatto diritto, che l'assicurato abbia, prima del predetto momento, conseguito il prescritto requisito contributivo e presentato domanda di pensione. In questa prospettiva, quindi, il momento di perfezionamento di tale diritto diventa il momento in cui questo tempo è decorso: momento che va identificato nella data di apertura della "finestra" indicata caso per caso dalla legge; e questa volontà normativa ha fondamento nella stessa natura del tempo, quale ulteriore integrazione dell'età anagrafica.
Sulla scia di precedenti orientamenti la S.C. aggiunge che la possibilità del recesso ad nutum, con sottrazione del datore di lavoro all'applicabilità del regime della L. n. 300 del 1970, art. 18, è condizionata non dalla mera maturazione dei requisiti anagrafici e contributivi idonei per la pensione di vecchiaia, bensì dal momento in cui la prestazione previdenziale è giuridicamente conseguibile dall'interessato di guisa che il licenziamento intimato precedentemente non è sottratto all'applicazione dell'art. 18 pro tempore vigente. Questa interpretazione, d'altronde, è stata avallata dagli stessi Giudici delle leggi i quali hanno (sì) ritenuto compatibile con la Costituzione la previsione del recesso ad nutum ma solo sul rilievo secondo cui "in una società come quella attuale, in cui si hanno disoccupazione e sottoccupazione, l'assenza di una piena tutela del diritto al lavoro (per difetto di garanzie di stabilità del posto) per i lavoratori che abbiano già conseguito la pensione di vecchiaia trova ragionevole giustificazione nel godimento, da parte loro, di tale trattamento previdenziale" (vedi, per tutte: Corte Cost. sentenze n. 15 del 1983; n. 309 del 1992; n. 225 del 1994; n. 174 del 1971; n. 45 del 1965, nonchè Cass. 26/5/2004, n. 10179), per cui il licenziamento ad nutum è ammissibile in quanto si "goda" del trattamento pensionistico di vecchiaia e non è sufficiente che si sia in attesa di esso, seppure la fruizione sia procrastinata di soli 12 mesi.
Sulla base di queste argomentazioni la S.C. ritiene errata la pronuncia della Corte di appello nella parte in cui - facendo leva sul tenore del messaggio Inps n. 5702 del 6/3/2008 – affermava che il ricorrente aveva sin dal 12/3/2011 maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia (contributi, età, finestra, idoneità della domanda ad essere accolta se presentata) e che avrebbe potuto fruire della pensione di vecchiaia dal 1/4/2011 se avesse proposto la domanda prima del 30/3/2011. L'assunto, infatti, secondo la Corte, non tiene conto dei principi regolatori della materia, definiti invece, dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, convertito con modificazioni dalla L. 30 luglio 2010, n. 122 - vigente all'atto del licenziamento - secondo cui il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia decorre, per i lavoratori dipendenti, trascorsi dodici mesi dalla data di maturazione dei previsti requisiti (1/4/2011), in tal senso prospettandosi priva di rilievo la circostanza rimarcata dai giudici del gravame, secondo cui anteriormente al 1 aprile 2011 si era verificata l'apertura della "finestra" per la pensione di anzianità (dato eterogeneo rispetto a quello richiesto ex lege).
La S.C., pertanto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello in diversa composizione.

Procedimento disciplinare, procedura

Cass. Sez. Lav. 31 agosto 2020, n. 18136

Pres. Di Cerbo; Rel. Ciriello; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.L.; Contr. F. S.r.l.

Licenziamento ritorsivo - Motivo illecito esclusivo e determinate - Necessità - Sussistenza della giusta causa - Esclusione del carattere ritorsivo del licenziamento

Affinché il licenziamento possa dirsi ritorsivo è necessario che il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. sia determinante ed esclusivo, cioè, costituisca l'unica effettiva ragione di recesso. Ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all'applicazione della tutela prevista dall'art. 18, comma 1, Fornero richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento.
Art. 18 Fornero - Procedimento disciplinare - Giustificazioni - Violazione del termine di 5 gg. - Sanzione applicabile - Tutela indennitaria ex art. 18 comma 6 L. 300/70
Posto che ai sensi dell'art. 18, comma 6, l. 300/70 nella versione post riforma Fornero in materia di violazioni di forma e di procedura è accordata ai lavoratori una tutela indennitaria cd. debole, la violazione della regola della previa concessione del termine a difesa - che si risolve nella mancata osservanza del termine di cinque giorni tra contestazione e sanzione - deve considerarsi di natura procedurale, non ledendo le esigenze difensive del lavoratore in vista del processo.
NOTA
La Corte di appello di Milano confermava parzialmente la sentenza con la quale il Tribunale di Lecco aveva rigettato, sia in fase sommaria (rito Fornero) sia in fase di opposizione, la domanda proposta dal lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro avente ad oggetto la declaratoria di nullità - in quanto asseritamente ritorsivo - e di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al dipendente per aver spostato una macchina fresatrice, senza smontarla preventivamente, danneggiando il pavimento industriale, e l'aver abbandonato subito il servizio, senza giustificazioni, di fronte agli immediati rilievi del datore di lavoro.
In particolare, la Corte territoriale, pur concordando con il giudice di primo grado circa la sussistenza della giusta causa di recesso, aveva, tuttavia, accolto la censura del lavoratore in merito al fatto che il provvedimento espulsivo fosse stato adottato prima del decorso dei cinque giorni dalla contestazione degli addebiti, termine previsto dall'articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori.
Pertanto, la Corte, in applicazione del sesto comma dell'art. 18 L. 300/1970, pur confermando la risoluzione del rapporto di lavoro aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento nella misura minima prevista, in considerazione della presenza della giusta causa rinvenuta nel fatto addebitato, dei precedenti del lavoratore e della circoscritta contrazione del termine di cinque giorni tra la contestazione e il recesso, praticamente impartito quattro giorni pieni dopo la (tempestiva) contestazione effettuata nel corso dell'orario di lavoro.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione censurando la sentenza di appello sotto svariati profili.
La Suprema Corte, per quanto qui rileva, ritiene immune da vizi logico-giuridici l'iter argomentativo espresso dalla Corte territoriale in ordine a) all'esclusione del motivo ritorsivo di licenziamento e alla sussistenza della giusta causa; b) alla determinazione del risarcimento per la violazione da parte dell'azienda del termine minimo a difesa del lavoratore nell'ambito del procedimento disciplinare.
Con riferimento al profilo sub a), la Corte di Cassazione chiarisce che, affinché il licenziamento possa dirsi ritorsivo, è necessario che il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. sia determinante ed esclusivo, cioè, costituisca l'unica effettiva ragione di recesso. Qualora venga, dunque, accertata la sussistenza della giusta causa di recesso la ritorsività non può sussistere.
Con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ritiene che, coerentemente con il citato principio, la Corte di Appello aveva accertato la sussistenza della giusta causa argomentando in ordine alla gravità della condotta insita non solo nel danneggiamento della pavimentazione industriale, ma anche nella reazione consistente nell'abbandono del servizio, richiamante una condotta analoga a quelle già sanzionate con precedenti provvedimenti disciplinari.
Con riferimento al profilo sub b) la Corte, applicando la regola di cui all'art. 18 sesto comma Stat. Lav. - secondo cui in materia di violazioni di forma e di procedura è accordata ai lavoratori una tutela indennitaria c.d. debole - ha ritenuto che la violazione della regola della previa concessione del termine a difesa, che si risolve nella mancata osservanza del termine di cinque giorni tra contestazione e sanzione, sia da considerarsi di natura procedurale, non ledendo le esigenze difensive del lavoratore in vista del processo e, nel caso di specie, ritenendo la violazione del diritto di difesa nel procedimento disciplinare di modesta entità.
In particolare, la Corte richiama il consolidato principio secondo cui "in tema di licenziamento disciplinare, la violazione dell'obbligo del datore lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa, quale presupposto dell'eventuale provvedimento di recesso, integra una violazione della procedura di cui all'art. 7 st. lav. e rende operativa la tutela prevista dal successivo art. 18, comma 6, quale modificato dalla L. 90/2012".
In tale contesto normativo e giurisprudenziale, la Suprema Corte ritiene, dunque, "condivisibili le valutazioni operate dalla Corte territoriale che ha correttamente interpretato la disposizione dell'art. 18, sesto comma cit. anche nel ridurre al minimo l'indennità, così valorizzando il tenore letterale della norma che opera un chiaro riferimento alla gravità della violazione formale, nel caso di specie motivatamente esclusa".
Conclusivamente il ricorso del lavoratore viene respinto.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 7 agosto 2020, n. 16857

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.P.; Controric. A—A. S.p.A.

Licenziamento per gmo – Comunicazione - Indicazione dei motivi – Sussiste - Prova dei motivi - Non necessità - Indicazione dell'inutilizzabilità aliunde - Non sussiste

Il datore di lavoro ha l'obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso, ma non è tenuto ad esporre specificamente tutti gli elementi di fatto e di diritto a base del provvedimento, essendo invece sufficiente che indichi la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze essenziali, così che in sede di impugnazione non possa invocare una fattispecie totalmente diversa e, a fortiori, non è certamente tenuto a fornire, in sede di esposizione dei motivi, anche la prova degli indicati motivi.
Non è necessaria l'indicazione della inutilizzabilità aliunde nella motivazione del licenziamento per soppressione del posto, trattandosi di elemento implicito da provare direttamente in giudizio.
NOTA
Un dipendente di una società operante nel campo della distribuzione del gas veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo consistente nella perdita di un appalto per la distribuzione del gas nei comuni di Como e San Fermo, ai sensi della normativa speciale dettata dal D.M. 21.04.2011 recante norme comuni per il mercato libero del gas.
La Corte d'Appello di Milano, in sede di reclamo ex art. 1, co. 58, L.92/2012 ed in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Como, ha ritenuto legittimo il licenziamento.
Nello specifico, la Corte territoriale, ritenuta l'applicabilità alla fattispecie della richiamata normativa speciale, ha ritenuto legittimo il licenziamento, ritenendo altresì dimostrata in giudizio la redistribuzione tra altri dipendenti delle mansioni svolte dal lavoratore licenziato.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore che, tra le altre cose, lamentava, con il quinto motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2 L. 604/1966, per avere la sentenza «trascurato la violazione dei requisiti formali della lettera di licenziamento, sprovvista della motivazione posta a supporto del licenziamento».
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il suddetto motivo di ricorso.
Osserva infatti la Corte che il datore di lavoro ha l'obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso, ma non è tenuto ad esporre specificamente tutti gli elementi di fatto e di diritto a base dello stesso (tra i quali, in caso di licenziamento per soppressione del posto, la inutilizzabilità aliunde) né tantomeno a fornire, in sede di esposizione, anche la prova degli indicati motivi (cfr. Cass. n. 3752 del 1985).
Ad avviso della Suprema Corte, la ratio della previsione legislativa sull'onere della forma, anche a seguito della novella apportata all'art. 2 L. 604/1966 dall'art. 1, comma 37 L.92/2012 che impone la specificazione dei motivi contestuale al licenziamento scritto), era ed è sempre quella che «la motivazione del licenziamento sia specifica ed essenziale e consenta al lavoratore di comprendere le effettive ragioni del recesso».
Ne consegue che nella comunicazione del licenziamento il lavoratore ha l'onere di specificarne i motivi, ma non è tenuto, neppure dopo la suddetta modifica legislativa, a esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento (cfr. Cass. n. 6678 del 2019).
La Corte afferma altresì che, nella motivazione del licenziamento per soppressione del posto, non è necessaria l'indicazione della impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni; tuttavia, in forza dei princìpi di immutabilità della motivazione e della natura dell'obbligo di repêchage come fatto costitutivo del licenziamento, tale impossibilità deve essere provata in giudizio.

Sicurezza sul lavoro negli appalti

Cass. Sez. Lav. 11 agosto 2020, n. 16871

Pres. Raimondi; Rel. Negri della Torre; P.M. Cimmino; Ric. C.G.; Controric. E.J.M.

Lavoro subordinato - Coordinatore per l'esecuzione dei lavori - Articolo 92 Testo Unico Sicurezza sul Lavoro - Responsabilità - Vigilanza - Salute e sicurezza - Necessità

Il coordinatore per l'esecuzione dei lavori previsto dall'articolo 92 del T.U. per la sicurezza del lavoro è titolare di una posizione di garanzia nei limiti degli obblighi specificamente individuati dalla legge. Tale posizione di garanzia impone, nell'ambito dei contratti di appalto, di assicurare il collegamento tra impresa appaltatrice e committente al fine della migliore organizzazione del lavoro sotto il profilo della tutela antinfortunistica. Le funzioni del coordinatore non si limitano a compiti organizzativi o di collegamento, ma si sostanziano anche nel compito di vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni in materia di salute e sicurezza.
NOTA
La Corte d'appello, ha dichiarato un lavoratore, nella sua qualità di coordinatore per l'esecuzione dei lavori, responsabile dell'infortunio occorso ad un dipendente avendo quest'ultimo, nel compiere operazioni di lavaggio di una betoniera, subito l'amputazione della mano destra.
Per la Corte, le riscontrate inosservanze della normativa antinfortunistica e il rilievo causale dalle medesime assunto nella produzione dell'evento lesivo erano ascrivibili, oltre che al datore di lavoro, anche al coordinatore in quanto tenuto alla individuazione e valutazione dei fattori di rischio e alla individuazione ed elaborazione delle misure di prevenzione e protezione.
Avverso la sentenza della Corte ha proposto ricorso il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, ma la Cassazione lo ha rigettato.
Per la Suprema Corte il coordinatore per l'esecuzione dei lavori è titolare di una posizione di garanzia nei limiti degli obblighi specificamente individuati dal Testo Unico sulla sicurezza. Tale posizione di garanzia gli impone, nell'ambito dei cantieri temporanei o mobili contrassegnati da lavori appaltati, di assicurare il collegamento tra impresa appaltatrice e committente al fine della migliore organizzazione del lavoro sotto il profilo della tutela antinfortunistica: in particolare sono a suo carico i compiti di adeguare il piano di sicurezza in relazione allo stato di avanzamento dei lavori, di vigilare sul rispetto dello stesso e di sospendere le singole lavorazioni in caso di pericolo grave ed imminente. In altre parole, le funzioni del coordinatore non si limitano a compiti organizzativi e di raccordo o di collegamento tra le eventuali varie imprese che collaborano nella realizzazione dell'opera, ma, in conformità al dettato normativo sopra citato, si estendono anche al compito di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle imprese o della singola impresa delle prescrizioni del piano di sicurezza e ciò a maggior garanzia dell'incolumità dei lavoratori.
La sentenza ha poi chiarito che la presenza del coordinatore per la sicurezza non deve essere intesa come stabile presenza in cantiere, ma secondo il significato che consegue dalla posizione di garanzia di cui lo stesso è titolare nei limiti degli obblighi specificamente individuati dalle disposizioni richiamate, che comprendono anche poteri a contenuto impeditivo in situazioni di pericolo grave ed imminente: poteri che all'evidenza non erano stati esercitati nella fattispecie in esame, nella quale, come accertato dalla pronuncia di primo grado, la manomissione all'interblocco di sicurezza della betoniera era esistente da tempo, perché il cerotto era pieno di polvere e cemento e la macchina, pur nuova, versava in pessime condizioni di manutenzione.

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