Contenzioso

Per l’istituto problemi di tenuta senza l’intervento del legislatore

di Giampiero Falasca

La conciliazione di lavoro è un istituto poco amato dalla giurisprudenza più recente, come dimostra l’ultima ordinanza della Cassazione. Molte pronunce di merito, in questi anni, hanno ripetutamente minato la stabilità di questi atti: si pensi alla famosa decisione con cui il Tribunale di Roma, nel maggio del 2019 (sentenza n. 4354), ha messo in discussione le conciliazioni sottoscritte in sede sindacale in assenza di una disciplina collettiva, oppure alle diverse pronunce che, partendo da argomentazioni di volta in volta differenti, spesso hanno messo in discussione l’effettiva capacità di questi accordi di chiudere, una volta per tutte, ogni potenziale lite tra il datore di lavoro e il dipendente.

Ciascuna di queste decisioni - compresa quella più recente e più autorevole della Corte di cassazione - si basa si principi già noti e, considerati singolarmente, non rivoluzionari: il problema è che, messe una dopo l’altro, queste decisioni fanno emergere un problema di tenuta complessiva della conciliazione che, facendo riferimento alla brutta espressione gergale utilizzata nella prassi, appare sempre meno ”tombale“.

Prima di rifugiarsi nella comoda accusa ai giudici di eccessivo formalismo, bisogna tuttavia interrogarsi su come i professionisti, gli operatori e gli stessi lavoratori approcciano questo momento, che produce l’effetto di travolgere tutte le possibili rivendicazioni di una vita lavorativa. Questo effetto cosi importante non può e non deve essere banalizzato dentro formule standard, impegni approssimativi o scambi economici del tutto incongrui e incoerenti con i beni e le richieste cui il lavoratore rinuncia.

Certamente, sarebbe utile anche un approccio maggiormente rispettoso della volontà individuale da parte della giurisprudenza, che a fronte di chiare e inequivocabili clausole di rinuncia dovrebbe rifuggire dalla tentazione di consentire alle parti di rimettere in discussione gli accordi.

Questo cambio di approccio potrebbe e dovrebbe essere sostenuto anche dal legislatore: da tanti, troppi anni si parla con insistenza delle possibile misure deflative del contenzioso. La conciliazione può essere la prima di queste misure, a patto che suscitano alcune precise caratteristiche: deve essere conveniente per le parti (ad esempio, garantendo sostanziosi sconti fiscali e, come in parte già accade, contributivi); deve dare adeguate garanzie ai lavoratori di poter decidere in autonomia e senza forzature; e, ultimo ma non meno importante, deve essere stabile e definitiva, non potendo essere rimessa in discussione. Se mancano questi elementi, la conciliazione trasforma la lite in un’araba fenice, che si rigenera un istante dopo la propria apparente scomparsa.

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