Contenzioso

La conciliazione giudiziale teme solo i limiti ordinari

di Aldo Bottini

L’ordinanza 20913/2020 della Cassazione, che affronta, in una fattispecie peraltro piuttosto particolare, il tema della validità delle conciliazioni giudiziali, ha suscitato tra gli addetti ai lavori un allarme che non sembra giustificato. È stato, infatti, ipotizzato che la Cassazione avesse inteso circoscrivere la non impugnabilità delle conciliazioni raggiunte in sede giudiziale, in base all’articolo 2113 del Codice civile, ai soli atti dispositivi di diritti ricompresi nel perimetro della lite.

A ben vedere, una simile affermazione, che certamente porrebbe problemi non da poco a chi si adopera quotidianamente per definire le controversie giudiziali, non si rinviene nel provvedimento della Cassazione, che viceversa si limita a ribadire alcuni principi che possono ritenersi consolidati, come è reso evidente anche dal richiamo di specifici precedenti.

La prima questione attiene alla esperibilità, nei confronti della transazione contenuta nella conciliazione giudiziale (ma il discorso è il medesimo per tutte le conciliazioni raggiunte nelle “sedi protette”), delle normali azioni di nullità e di annullamento dei contratti. La Cassazione, ricordando che gli effetti attribuiti al verbale di conciliazione sono quelli di un contratto, non equiparabili a quelli di una sentenza passata in giudicato, afferma che la conciliazione, pur raggiunta in una sede protetta quale quella giudiziale, rimane soggetta alle ordinarie azioni (e quindi sanzioni) di annullabilità e nullità dei contratti disciplinate dal codice civile.

Si tratta delle classiche ipotesi di nullità previste dall’articolo 1418 del Codice civile (tra cui l’illiceità della causa e l’indeterminatezza dell’oggetto, espressamente richiamate dalla Cassazione attraverso il riferimento a decisioni precedenti) e di quelle di annullabilità per incapacità o vizio del consenso (per errore, violenza e dolo) previste dagli articoli 1427 e seguenti del Codice civile.

Il perfezionamento della transazione (o delle rinunce) in sede giudiziale, ricorda la Cassazione, vale a sottrarre la transazione stessa allo specifico regime di impugnabilità previsto dall’articolo 2113, che sancisce l’annullabilità degli atti dispositivi di diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi. Non “protegge” rispetto ad altri vizi dell’accordo transattivo. Semmai la stipulazione in sede protetta (e ancor più di altre in quella giudiziaria) potrà rendere più difficile un’impugnazione, ad esempio, per vizio della volontà, posto che quest’ultima si suppone possa liberamente esplicarsi in una situazione in cui il lavoratore gode di particolare tutela. Ma non può certo impedirla. Il principio dunque non è affatto nuovo, né tantomeno dirompente.

Considerazioni analoghe valgono per l’altra affermazione contenuta nell’ordinanza della Cassazione, relativa alla possibile nullità di atti dispositivi di diritti non ancora sorti o maturati, cioè di diritti futuri. Anche in questo caso costituisce orientamento consolidato della Suprema corte il principio secondo cui la rinuncia del lavoratore a diritti non ancora acquisiti nel suo patrimonio è nulla secondo l’articolo 1418 del codice civile e non semplicemente annullabile in base all’articolo 2113. La rinuncia a un diritto futuro, infatti, assumerebbe il valore di un atto diretto a regolamentare il rapporto di lavoro in maniera diversa da quella inderogabilmente fissata dalla legge o dal contratto collettivo. Quindi il lavoratore può disporre, nelle sedi protette, esclusivamente di diritti già maturati, come la giurisprudenza ha da sempre affermato. In conclusione, nulla di nuovo (e tantomeno di allarmante) sotto il sole.

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