Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Obbligo di assunzione e accordo sindacale
Lavoratore che assiste familiare disabile e divieto di trasferimento
Trasferimento di sede di lavoro
Assegnazione a mansioni inferiori e onere della prova
Licenziamento per superamento del periodo di comporto


Obbligo di assunzione e accordo sindacale

Cass. Sez. Lav. 14 dicembre 2020, n. 28415

Pres. Raimondi; Rel. Lorito; Ric. CLP S.I. S.p.A.; Controric. D.A.
Obbligo di assunzione - Accordo sindacale - Contenuto - Determinazione dell'oggetto del contratto di lavoro - Esecuzione in forma specifica - Ammissibilità

Ove le parti abbiano concordato, in sede di accordo sindacale, l'obbligo per il datore di lavoro di assumere personale in forza presso un'altra azienda, prevedendo il contratto collettivo applicabile ai nuovi dipendenti la relativa categoria di inquadramento, nonché il riconoscimento dell'anzianità pregressa e del superminimo individuale, l'oggetto del contratto di lavoro deve ritenersi sufficientemente determinato. Ne consegue che il lavoratore, in caso di inadempimento, può richiedere, ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto, senza che rilevi la mancata predeterminazione della concreta assegnazione della sede lavorativa e delle mansioni, che attiene alla fase di esecuzione del contratto.
NOTA
Il dipendente di una società esercente attività di trasporto pubblico nella provincia di Caserta lamentava di essere stato licenziato dalla curatela del fallimento della società, nonostante fosse subentrata nell'appalto pubblico, prima gestito dal proprio datore di lavoro, una nuova società la quale si era impegnata in base ad accordi con la Regione Campania, nel corso della procedura fallimentare, ad assumere i dipendenti della società appaltatrice fallita, ad eccezione di quelli che avessero optato per l'iscrizione alle liste di mobilità.
Il ricorrente lamentava di non esser stato assunto dalla nuova società appaltatrice, essendo stato in precedenza dichiarato non idoneo al servizio di guida, in evidente violazione delle obbligazioni assunte dalla nuova appaltatrice, e domandava al Tribunale di Napoli che venisse accertato il proprio diritto all'assunzione a far tempo dal 18 aprile 2012 «con inquadramento nel parametro 183 e la condanna della società alla costituzione del rapporto ed al pagamento delle retribuzioni maturate dalla stessa data fino alla data di effettiva assunzione».
Il Tribunale di Napoli accertava la sussistenza dell'obbligo all'assunzione del dipendente sulla base degli impegni contrattualmente assunti dalla società appaltatrice, ma non pronunciava sentenza costitutiva del rapporto, ritenendo inutilizzabile lo strumento dell'esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ. sulla base di un ritenuto difetto di specificazione all'interno dello stesso di alcuni elementi, come le mansioni alle quali sarebbe stato in concreto adibito il ricorrente.
Questa sentenza veniva in parte riformata dalla Corte di appello di Napoli, adita da entrambe le parti, che respingeva l'appello principale proposto dalla società appaltatrice e, in parziale accoglimento dell'impugnazione proposta dal dipendente, dichiarava costituito fra le parti un rapporto di lavoro subordinato con «inquadramento nella qualifica di operatore di esercizio parametro 183 c.c.n.l. Autoferrotranvieri con decorrenza dal 24/5/2012».
La Corte di Cassazione, adita dalla società appaltatrice, conferma la statuizione della Corte d'Appello, affermando che l'accordo raggiunto in sede sindacale, inerente all'obbligo della nuova appaltatrice di assumere il personale già in forza alla precedente affidataria, può essere azionato dai lavoratori coinvolti, ai sensi dell'art. 2932 c.c. Condizione necessaria a tal fine è che l'accordo individui il contratto collettivo applicabile ai nuovi dipendenti, la relativa categoria di inquadramento ed il riconoscimento dell'anzianità pregressa. Al contrario, la Corte non ritiene necessaria la predeterminazione della concreta assegnazione della sede lavorativa e delle mansioni, circostanze che attengono alla fase di esecuzione del contratto. La Suprema Corte, pertanto, rigetta il ricorso proposto dalla società appaltatrice, confermando l'obbligo della stessa di assumere il lavoratore, seppur divenuto inidoneo alle mansioni cui era inizialmente adibito.

Lavoratore che assiste familiare disabile e divieto di trasferimento

Cass. Sez. Lav. 17 dicembre 2020, n. 29009

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. R.S.; Controric. B.N. S.p.A.

Lavoratore che assiste familiare disabile – Divieto di trasferimento – Decorrenza – Data di presentazione della domanda INPS – Rilevanza – Data concessione benefici ex L. 104/1992 – Irrilevanza

In ragione dell'esigenza di tutela del disabile – al di là di ogni preclusione collegata all'inesistenza di un provvedimento formale che confermi lo stato di handicap – i diritti del dipendente che assiste un familiare con disabilità, tra cui quello a non essere trasferito senza il suo espresso consenso, sorgono al momento della presentazione della domanda volta ad ottenere i benefici di cui alla L. 104/1992, e non alla data del provvedimento autorizzativo emesso dall'INPS.

Lavoratore che assiste familiare disabile – Trasferimento – Limiti – Consenso del lavoratore – Necessità – Vicinanza tra nuova sede e residenza del familiare – Irrilevanza

Ai sensi dell'art. 33, comma 5, L. 104/1992, il trasferimento, per iniziativa datoriale, di un lavoratore che assiste un familiare disabile, non può avvenire senza il consenso del lavoratore medesimo. Tale consenso è imprescindibile e, come tale, necessario ai fini della legittimità del trasferimento. In presenza di un rifiuto espresso da parte del lavoratore interessato, è irrilevante la vicinanza tra la nuova sede di lavoro ed il luogo di residenza del familiare da assistere.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli, in accoglimento del gravame del datore di lavoro, rigettava la domanda del dipendente volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del suo trasferimento ai sensi della L. 104/1992, in quanto incaricato dell'assistenza ad un familiare disabile. In particolare, la Corte rilevava che l'invocato beneficio ex L. 104/1992 decorresse dalla data del provvedimento di accoglimento reso dall'INPS, e non dalla data di presentazione della domanda. La Corte d'Appello riteneva, in ogni caso, il trasferimento legittimo nonostante il rifiuto espresso dal lavoratore, poiché la nuova sede di lavoro era più vicina al comune di residenza del familiare da assistere.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia lamentando, inter alia, la violazione degli artt. 3 e 33, L. 104/1992, e dell'art. 12 delle Preleggi, in relazione alla decorrenza dei benefici di cui all'art. 33, comma 5, L. 104/1992 dal provvedimento dell'INPS invece che dalla richiesta.
La Suprema Corte, dopo aver dato atto dei principali interventi giurisprudenziali in merito alla necessità di favorire la socializzazione dei soggetti disabili ed al ruolo fondamentale della famiglia nella cura e assistenza dei soggetti portatori di handicap, osserva che sebbene la citata normativa sui trasferimenti presupponga l'accertamento di una condizione di disabilità grave, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto vietato il trasferimento di un lavoratore anche nel caso in cui tale condizione di disabilità non si configuri come "grave", a meno che il datore di lavoro provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive e urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte (in tal senso, Cass. 12 dicembre 2016, n. 25379 e Cass. 11 ottobre 2017, n. 23857).
In altri termini, tali pronunce valorizzano l'esigenza di tutela del disabile al di là di ogni preclusione collegata all'inesistenza di un provvedimento formale che confermi la situazione di fatto dalla quale deriverebbero i diritti del lavoratore che assiste un familiare con disabilità. In adesione a questo principio, la Corte di cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, ancorando l'insorgenza del diritto del lavoratore a non essere trasferito senza il suo espresso consenso al momento della presentazione della domanda volta ad ottenere i benefici di cui alla L. 104/1992, e non alla data del provvedimento autorizzativo emesso dall'INPS.
Quale ulteriore motivo di ricorso, il lavoratore denunciava la violazione dell'art. 12 delle Preleggi, dell'art. 2103 c.c. e della L. 104/1992, in relazione alla ritenuta irrilevanza del rifiuto al trasferimento in ragione dell'avvicinamento della sede di lavoro alla residenza del disabile.
La Suprema Corte accoglie anche questo motivo di ricorso, evidenziando come ai sensi dell'art. 33, comma 5, L. 104/1992, il trasferimento per iniziativa datoriale non possa avvenire senza il consenso del lavoratore. Tale consenso è imprescindibile e, come tale, necessario ai fini della legittimità del trasferimento medesimo. In presenza di un rifiuto espresso da parte del lavoratore, è irrilevante la mera vicinanza tra la nuova sede di lavoro ed il luogo di residenza del familiare disabile da assistere.
In accoglimento dei suddetti motivi di ricorso, quindi, la Corte di cassazione rinvia alla Corte d'Appello di Napoli in diversa composizione per la definizione della controversia nel merito con la corretta applicazione dei principi appena richiamati.

Trasferimento di sede di lavoro

Cass. Sez. Lav. 24 dicembre 2020, n. 29596

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.G.; Contr. C.E. s.c.;

Rito lavoro – Modifica della domanda – Limiti – Ammissibilità – Nuova domanda – Esclusione

Art. 2103 c.c. – Trasferimento – Carenza di organico – Assegnazione ad altro punto vendita – Legittimità – Scelta aziendale – Sindacabilità – Esclusione

Nel processo del lavoro l'unica modifica della domanda consentita è quella che integra una "emendatio libelli": non v'è dubbio, infatti, che, ricorrendo gravi motivi e previa autorizzazione del giudice, le parti possano modificare ex art. 420 c.p.c. domande, eccezioni e conclusioni già formulate, ma deve escludersi che possano, altresì, proporre domande nuove per "causa petendi" (ragione su cui si fonda la domanda) o "petitum" (oggetto della domanda), neppure con il consenso della controparte, sia esso esplicito, mediante l'espressa accettazione del contraddittorio, sia esso implicito, nella difesa nel merito.
È legittimo il trasferimento della dipendente ad altro punto vendita motivato dalla necessità di colmare il vuoto di organico ivi verificatosi a seguito delle dimissioni rassegnate dall'originario responsabile. Ai sensi dell'art. 2103 c.c. nella formulazione "ratione temporis" applicabile, la sussistenza delle comprovate esigenze produttive rappresenta, infatti, l'unico elemento da valutarsi come determinante ai fini della legittimità del trasferimento, essendo, viceversa, insindacabili le scelte aziendali in virtù della libertà di iniziativa imprenditoriale garantita dall'art. 41 della Costituzione.
NOTA
La Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Parma che aveva rigettato il ricorso proposto da una lavoratrice per l'impugnativa del trasferimento disposto dalla società datore di lavoro.
In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto legittimo il trasferimento disposto in quanto sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, escludendone la natura vessatoria.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
Con il primo motivo di ricorso, la dipendente lamenta di aver chiesto, sin dal proprio atto introduttivo del primo grado, la sussistenza di un suo obbligo di assistenza nei confronti della madre, e di aver poi specificato la relativa domanda nelle note conclusive.
La Suprema Corte, tuttavia, ritiene tale motivo infondato in quanto correttamente la Corte d'Appello aveva ritenuto la domanda inerente in merito ai permessi ex L. 104/1992 come attinente ad una diversa "causa petendi" (ovvero ad una diversa ed ulteriore ragione alla base della domanda iniziale), per l'inserimento di un fatto nuovo a fondamento della pretesa e di un diverso tema di indagine e di decisione, atteso che l'obbligo di assistenza era stato allegato solo con riguardo all'aggravamento della situazione della ricorrente in esito al trasferimento e soltanto nelle note conclusive era stata invocata la tutela privilegiata in esame.
La Corte di Cassazione chiarisce, infatti, che nel processo del lavoro "l'unica modifica della domanda consentita è quella che integra una "emendatio libelli"(ossia una modifica della domanda): non v'è dubbio, infatti, che, ricorrendo gravi motivi e previa autorizzazione del giudice, le parti possano modificare ex art. 420 c.p.c. domande, eccezioni e conclusioni già formulate, ma deve escludersi che possano, altresì, proporre domande nuove per "causa petendi" (ragione su cui si fonda la domanda) o "petitum" (oggetto della domanda), neppure con il consenso della controparte, sia esso esplicito, mediante l'espressa accettazione del contraddittorio, sia esso implicito, nella difesa nel merito".
La Suprema Corte respinge anche il secondo motivo di ricorso, ovvero l'asserita violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c., ritenendo che il giudice d'appello abbia correttamente verificato la sussistenza di un motivo tecnico organizzativo-produttivo la cui configurabilità legittima l'esercizio del relativo potere datoriale, consistente nel vuoto di organico nel punto vendita di destinazione, determinato dalle dimissioni rassegnate da una collega della dipendente.
Il Collegio ritiene, dunque, che correttamente entrambi i giudici di merito abbiano provveduto ad accertare il nesso di causalità fra il venir meno della attività lavorativa nella sede di destinazione della dipendente ed il trasferimento e, quindi, l'effettività della ristrutturazione organizzativa, essendo le scelte aziendali insindacabili in virtù della libertà di iniziativa imprenditoriale garantita dall'art. 41 della Costituzione.
Conclusivamente, la Corte di Cassazione respinge il ricorso della lavoratrice.

Assegnazione a mansioni inferiori e onere della prova

Cass. Sez. Lav. 17 dicembre 2020, n. 29012

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. R.L.; Controric. I. S.p.a.
Rapporto di lavoro – Mansioni inferiori – Trattamento retributivo – Risarcimento del danno ulteriore – Assenza di automatismo – Fattispecie – Menomazione della professionalità – Perdita di chances – Onere della prova a carico del lavoratore – Sussiste

L'assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie del loro livello contrattuale non determina di per sé un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria, l'art. 2103 c.c., il quale stabilisce il principio della irriducibilità della retribuzione nonostante l'assegnazione e lo svolgimento di mansioni inferiori e meno pregiate di quelle già attribuite, giacché deve escludersi che ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporti una automatica dequalificazione professionale, connotandosi quest'ultima, per sua natura, per l'abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione - non transeunte - della sua professionalità, nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno.
NOTA
La Corte d'appello rigettava il ricorso del lavoratore che aveva chiesto la condanna della società al risarcimento dei danni da lucro cessante, diretti ed indiretti, dei danni morali e di una penale quale ulteriore conseguenza dell'attribuzione di mansioni inferiori.
Secondo la Corte di appello doveva confermarsi la mancanza dei presupposti per riconoscere gli ulteriori danni connessi all' avanzamento di carriera, non dimostrato, e veniva negato il riconoscimento dell'indennità di pendolarismo per non tempestiva comunicazione alla società del cambio di residenza, nonché dell'indennità di diaria, per genericità nella relativa indicazione.
Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso il lavoratore ma la Cassazione lo ha rigettato.
Secondo la Suprema Corte deve escludersi che ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporti una automatica perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, a ciò conseguendo che grava sul lavoratore l'onere di fornire la prova, anche attraverso presunzioni, dell'ulteriore danno risarcibile, mentre resta affidato al giudice del merito il compito di verificare, di volta in volta, se, in concreto, il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l'ammontare, eventualmente con liquidazione in via equitativa. Ed invero, la perdita di una "chance" configura un danno attuale e risarcibile, sempre che ne sia provata la sussistenza, anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni ed alla mancanza di una tale prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., atteso che l'applicazione di tale norma richiede che risulti provata o comunque incontestata l'esistenza di un danno risarcibile ed è diretta a fare fronte all'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno.
Per la Cassazione, la Corte di appello ha motivato in conformità a tali principi, ribaditi dalla Corte Suprema anche in pronunce successive, laddove ha evidenziato che riconoscere tale danno presupporrebbe un automatismo della carriera e quindi di raggiungimento del massimo livello contrattuale, che non sussisteva nella specie, considerata l'assoluta discrezionalità degli avanzamenti di carriera nel settore oggetto di giudizio.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 4 dicembre 2020, n. 27912

Pres. Patti; Rel. Leo; P.M. Mastroberardino; Ric. I.N..; Controric. O.V.V. S.p.a.

Lavoro subordinato - Licenziamento per superamento periodo di comporto – Ulteriore periodo di malattia non comunicato al datore di lavoro – Rilevanza - Esclusione

Deve escludersi la rilevanza oggettiva della malattia, ancorchè non tempestivamente comunicata al datore di lavoro, in quanto non integrante ex se ragione obiettiva di illegittimità del licenziamento, ma elemento di fatto al fine del computo del periodo di comporto, rispetto al quale il datore di lavoro deve essere necessariamente edotto, tenuto conto del ragionevole lasso di tempo di cui dispone per una valutazione conveniente della sequenza di eventi morbosi del lavoratore e la conseguente mobilità del termine esterno di computo.
NOTA
Un lavoratore dipendente impugnava il licenziamento comminatogli per superamento del periodo di comporto.
In entrambe le fasi (sommaria e di opposizione) della causa di primo grado, svoltasi secondo il rito Fornero, il Tribunale di Bergamo accoglieva l'impugnazione condannando la società alla reintegrazione e al risarcimento del danno ex art. 18, comma IV, L. 300/1970.
La Corte di Appello territoriale riformava la sentenza del Tribunale e respingeva la domanda di impugnazione del licenziamento, osservando che "coglie nel segno la censura sollevata dalla società relativamente al fatto che «il primo giudice ha omesso la valutazione di un elemento di fatto essenziale: la non conoscibilità da parte del datore di lavoro della nuova malattia del 12.12.2016 all'atto del licenziamento»", in quanto il lavoratore aveva fatto pervenire il certificato in data 13.12.2016 quando ormai il licenziamento era stato intimato con la spedizione della raccomandata e, pertanto «il datore di lavoro nel computare i giorni di assenza rilevanti ai fini del superamento del comporto non poteva tenere conto della nuova malattia».
Inoltre, secondo la Corte territoriale, la sentenza non sarebbe condivisibile nella parte in cui, superando la presunzione di continuità della malattia, ha omesso di considerare nel computo dei giorni di malattia le giornate dell'8 (festivo), 9 (ponte), 10 (sabato) e 11 (domenica) dicembre e, pertanto, anche nell'ipotesi di computo del giorno 12.12.2016 quale data di inizio dell'ultimo episodio morboso del lavoratore, il periodo di comporto risulterebbe comunque superato.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore, che con il primo motivo di ricorso lamentava la violazione e/o falsa interpretazione dell'art. 2110 c.c. e dell'art. 2, titolo VI, CCNL Metalmeccanici Industria, assumendo che la Corte di merito avesse errato ritenendo che il giorno 12 dicembre, ancorchè coperto da certificazione di malattia non potesse ritenersi utile a tal fine in quanto di tale nuova malattia il datore di lavoro non era a conoscenza al momento della spedizione della raccomandata.
Con il secondo motivo di ricorso il lavoratore lamentava, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa interpretazione dell'art. 2110 c.c. e dell'art. 2, titolo VI, CCNL Metalmeccanici Industria, assumendo che la Corte di Appello avesse errato nel considerare comunque superato il periodo di comporto ricomprendendovi i giorni 8, 9, 10 e 11 dicembre, non tenendo conto del principio dell'immutabilità delle ragioni indicate nella lettera di licenziamento, che indicava, quale ultimo periodo di malattia, quello intercorrente tra il 29 novembre e il 7 dicembre, per 9 giorni.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il primo motivo di ricorso, osservando che nella fattispecie non si configura una questione di interpretazione del CCNL, ma soltanto un riferimento al fatto storico dell'ultimo episodio morboso.
E a questo riguardo, ad avviso della Suprema Corte, deve escludersi la rilevanza oggettiva della malattia, ancorché non tempestivamente comunicata al datore di lavoro, in quanto non integrante ex se ragione obiettiva di illegittimità del licenziamento, ma elemento di fatto al fine del computo del periodo di comporto, rispetto al quale il datore di lavoro deve essere necessariamente edotto, tenuto conto del ragionevole lasso di tempo di cui dispone per una valutazione conveniente della sequenza di eventi morbosi del lavoratore (Cass. 25535/2018; Cass. 7037/2011) e la conseguente mobilità del termine esterno di computo.
Infine, la Corte ha ritenuto il secondo motivo inammissibile, in quanto relativo ad una domanda proposta dalla società in via subordinata, e pertanto superato dalla reiezione del motivo di ricorso relativo all'accoglimento della domanda proposta in principalità.

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