Contenzioso

Inadempimento contributivo, il lavoratore non può ricorrere contro l'Inps

di Silvano Imbriaci

La vicenda che ha dato origine alla sentenza 6722/2021 della Corte di cassazione riguarda la richiesta formulata all'Inps da parte di un lavoratore affinché l'ente provvedesse alla regolarizzazione della propria posizione contributiva, a seguito del passaggio in giudicato di sentenza con cui egli era stato definitivamente reintegrato nel proprio posto di lavoro a seguito di licenziamento dichiarato illegittimo.

Il lavoratore aveva lamentato l'impossibilità di azionare l'obbligo di versamento dei contributi nei confronti del datore di lavoro, in quanto l'azienda si era cancellata dal registro delle imprese per intervenuta estinzione. Posto egli che aveva documentato di aver comunicato all'Inps la sentenza di reintegra, con l'indicazione specifica dell'obbligo contributivo a carico del datore, riteneva che fosse uno specifico onere dell'Inps quello di attivarsi o, in caso di inerzia colpevole, di provvedere comunque alla copertura contributiva, in caso di preclusione dell'accesso al rimedio risarcitorio (articolo 2116 del Codice civile) o al rimedio compensativo costituito dalla costituzione di rendita vitalizia secondo l’articolo 13 della legge 1338/1962.

Tale onere a carico dell'Inps era ricostruito attraverso un precedente della stessa Corte di cassazione (7459/2002), secondo cui, nell'ipotesi in cui l'istituto di previdenza non abbia provveduto a conseguire dal datore di lavoro i contributi omessi, nonostante sia venuto tempestivamente a conoscenza dell'omissione, lo stesso è tenuto a provvedere alla regolarizzazione della posizione assicurativa del lavoratore che ne abbia fatto richiesta e al quale è precluso ricorrere alla costituzione della rendita o all'azione di risarcimento danni.

La Corte, nel delineare una soluzione alla questione, muove innanzitutto dalla verifica della natura dell'obbligo contributivo in caso di regolarizzazione a seguito di licenziamento illegittimo. Perché questa condanna alla regolarizzazione sia efficace, non è necessario né che l'ente partecipi al giudizio, né che vi sia una specifica domanda da parte del lavoratore: quella del versamento dei contributi previdenziali è un'obbligazione a carattere pubblicistico, analoga all'obbligazione tributaria. Il rapporto contributivo è del tutto autonomo rispetto a quello previdenziale: ciò esclude che il lavoratore possa sostituirsi all'ente previdenziale per ottenere una condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi, in quanto si tratta di un effetto connesso naturalmente alla persistenza del rapporto di lavoro.

Per quanto attiene al termine di prescrizione, nel caso di nullità/illegittimità del licenziamento non si ha alcun effetto diretto sul computo dei termini, dal momento che la decorrenza non può che essere individuata in un momento successivo rispetto all'ordine di reintegrazione. L'Inps non può infatti chiedere il pagamento dei contributi in presenza di una comunicazione diretta di cessazione del rapporto di lavoro, in quanto non è materialmente impossibile indagare sulla legittimità del recesso quando sia contestata dal lavoratore. Peraltro, in via compensativa, una volta contenuta la condanna alla regolarizzazione in sentenza, il termine diventa decennale per effetto dell'articolo 2935 del Codice civile (con effetti anche nei confronti di chi non ha partecipato al giudizio sul licenziamento, come l'Inps).

Dunque, l'ordinamento non prevede un'azione dell'assicurato volta a condannare l'ente alla regolarizzazione della sua posizione assicurativa. E questo neanche nel caso in cui l'ente sia stato informato, più o meno formalmente, dell'inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione e non si sia tempestivamente attivato per l'adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato. L'unico strumento in mano al lavoratore è il rimedio risarcitorio previsto dall’articolo 2116 del Codice civile, accanto alla costituzione di rendita vitalizia.

Il problema dunque si sposta sulla percorribilità da parte del lavoratore di tutti questi rimedi; sul punto la Cassazione sembra quasi "suggerire" al lavoratore, nel caso di società estinte, di valutare la possibilità di escutere i soci, che rispondono del debito sociale nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, essendo in vita la società, si possa configurare una responsabilità, limitata o illimitata (si veda sentenza a sezioni unite 6070/2013)

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