Contrattazione

Test di massa per passare da lavoro remoto a smart

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di Cristina Casadei

Se c’è un fenomeno che durante il lockdown ha manifestato grande carica di cambiamento, questo è lo smart working di cui oggi ci ritroviamo a raccogliere l’eredità. Nel bene e nel male. Pensare di tornare alla normalità pre Covid 19 significa interrompere il percorso avviato con il test di massa di questi mesi, che ha evidenziato alcune ombre, ma anche molte luci, secondo quanto emerge da una survey di Luiss business school su cui oggi alle 17 si terrà il Webinar, organizzato con Confindustria Digitale.

Secondo i numeri dell’associazione, questa modalità di lavoro ha riguardato non più del 30% delle imprese italiane, che verosimilmente la praticavano prima del lockdown. È infatti riduttivo ricondurre lo smart working al lavoro da remoto, perché pur non cambiando il contenuto dell’attività da svolgere, nello smart working vengono ripensati procedure e processi aziendali, in cui le tecnologie giocano un ruolo di primo piano. Stefano Venturi, presidente steering committee competenze e capitale umano di Confindustria digitale, stima che «nel periodo del distanziamento sociale, 8 milioni di italiani hanno svolto il proprio lavoro da casa e in sicurezza. Un numero limitato ma significativo, frutto della organizzazione preesistente di imprese già dotate di tecnologie digitali. La sintesi delle esperienze deve portare a una riflessione e ispirazione per un nuovo modello culturale e organizzativo che metta al centro fiducia, responsabilità e capacità di lavorare per obiettivi, di squadra e individuali, a sostegno della digitalizzazione del Paese e dei processi innovativi».

A monte dei ragionamenti vi è l’evoluzione della cultura aziendale verso un modello che pone al centro il lavoratore, spostando la misurazione del merito dal “quanto lavorato” ai risultati ottenuti e tendendo a un migliore work life balance.

Quest’ultimo fattore fa sì che lo smart working sia visto con grande favore dai lavoratori. Dalla survey della Luiss business school - ieri, tra l’altro la Luiss è risultata prima nella classifica Censis tra le università non statali di medie dimensioni - emerge che il 68% del campione sta lavorando in smart working ogni giorno per effetto del lockdown e, tra questi, l’82% dice che, superata la fase di emergenza Covid-19, è disponibile, a lavorare in questa modalità, per più giorni alla settimana. Il 14% dice invece che non sarebbe disponibile.

«La pandemia ha portato un’accelerazione che possiamo stimare di non meno di 5 anni in tutta una serie di processi, primo fra tutti lo smart working, che, soprattutto in alcuni settori è stato in realtà vissuto più come remote working, lavoro a distanza», interpreta Paolo Boccardelli, direttore della Luiss Business School. Entrando nel merito, la ricerca ha riguardato 451 professionisti, con un’età media di 36 anni, il 70% dei quali dipendenti o collaboratori.

«In termini di impatto, se da un lato la maggioranza assoluta del campione ritiene di essere riuscita a svolgere da casa tutte le mansioni assegnate, d’altra parte sono emersi elementi di riflessione discordanti», osserva Enzo Peruffo, associate dean della Luiss Business School che ha curato la ricerca. Ad esempio, il 28% del campione ha riconosciuto di non aver mantenuto i livelli di produttività consueti, riuscendo solo parzialmente a svolgere le proprie attività da casa. «Le motivazioni sono varie, ma il dato non può essere ignorato, soprattutto in un Paese come il nostro che tradizionalmente registra un problema di aumento della produttività, specie in alcuni settori», spiega Peruffo.

Rispetto al work-life balance, il maggior tempo dedicato alla famiglia primeggia come beneficio più condiviso dell’esperienza di smartworking. E il 69% del campione ritiene che lo smart working possa giocare un ruolo favorevole al rafforzamento delle pari opportunità. «Emerge come il progetto di smartworking, sviluppato nell’emergenza, debba ancora essere completato dalle imprese affinché i benefici possano essere massimizzati, senza perdere gli aspetti positivi legati alla presenza in ufficio», aggiunge Peruffo.

Ci sono fattori fisici, ma anche culturali che si legano a questo modo di lavorare. Tra quelli abilitanti, come spiega la survey, al primo posto ci sono gli strumenti tecnologici che, in una scala da 0 a 7 hanno un punteggio pari a 6,39. Nel giro di poche settimane, durante il lockdown, si è passati dall’uso di strumentazioni low-tech, come telefoni cellulari ed e-mail, a quello di tecnologie molto più sofisticate, come sistemi di videoconferenza e di formazione a distanza, rispetto ai quali, però, non sono poche le persone che si sono trovate in difficoltà. Adesso, però, abbiamo l’occasione per consolidare le best practice più virtuose.

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