Contrattazione

Bene lo smart working, ora definire regole e modalità

di Stefano Elli

Ai lavoratori che lo hanno provato, lo Smart working (o lavoro a distanza) piace. Ma occorre andare oltre l’emergenza e stabilire precise regole d’ingaggio per implementare al meglio queste nuove modalità di produzione. Il dato emerge con chiarezza dalla prima edizione dell’Osservatorio EY-SWG «New Shape of Working».

Un osservatorio, dunque un telescopio, puntato costantemente sul mondo del lavoro e sulla sua evoluzione, con l’ambizione di porsi come punto di riferimento per le aziende, le parti sociali, e per chi governa il mercato del lavoro, per monitorare una mutazione dei processi produttivi che era già in atto ma che la crisi del Covid-19 ha accelerato bruscamente.

Donato Ferri, Med Consulting Leader di EY, commenta: «Ogni mese passato da marzo a oggi ci ha reso evidente che non lavoreremo più come prima. Non è un cambiamento delle modalità, da remoto a Smart o fisico, quello che rileva, semmai è la certezza di un processo di trasformazione in corso che tocca gli aspetti culturali, sociali, psicologici e perfino della salute delle persone. E un domani questi cambiamenti si ripercuoteranno sui sistemi fiscali, educativi e di welfare.

Fare smart working – spiega ancora Ferri – non è semplicemente lavorare da casa o fuori ufficio, ma ottimizzare i risultati aziendali attraverso l’autonomia e la responsabilizzazione del dipendente e una maggior flessibilità a livello di organizzazione di orari e di spazi».

L’osservatorio EY SWG parte con un maxi sondaggio iniziato un anno fa, cioè ben prima dello scoppio della crisi pandemica, con un campione formato da 991 intervistati (a giugno 2020) di cui: 48% uomini e 52% donne; 51% junior e 49% senior; 55% di lavoratori in aziende sotto i 1.000 dipendenti e 45% in aziende sopra 1.000 dipendenti; 46% di loro attivi nel settore pubblico e 54% nel settore privato; il 37% di loro attivi a lavoro da ufficio e il 63% remote worker. Gli esiti sono chiari: otto lavoratori a distanza su 10 dichiarano di aver mantenuto standard di efficienza uguali o superiori. Ma segnalano anche alcune criticità: il 43% di loro dichiara difficoltà nello «staccare» completamente la mente dal lavoro; il 26% lamenta orari di lavoro mai ben definiti e quindi aumentati; il 23% soffre per dotazioni tecnologiche non adeguate; mentre il 21% dichiara tempi più lunghi necessari per lo svolgimento delle attività lavorative. Per EY tutto questo comporta per le imprese il «Promuovere una cultura del lavoro basata sul raggiungimento dei risultati e non sulla mera presenza sul luogo di lavoro; avere un impatto positivo sull’efficienza e sulla produttività; aumentare il benessere delle persone e con esso la soddisfazione e il senso di appartenenza; dare una risposta concreta alle esigenze crescenti in termini di integrazione vita – lavoro. Oltre che contribuire alla salvaguardia dell’ambiente, diminuendo il pendolarismo e le emissioni di C02» A livello del singolo lavoratore, quali sono le risorse personali associate alla soddisfazione lavorativa? Dal sondaggio emerge che siano la resilienza (termine ben spiegato dall’adagio siciliano ”Chinati giunco che passa la piena”, l’anticipazione, la determinazione e l’apprendimento (dimensioni, queste, presenti nel nuovo modello di “competenze del futuro” che EY ha costruito e validato in collaborazione con l’università La Sapienza e che è quindi in grado di misurare tramite tool ad hoc).

Quanto al ruolo centrale del management in questo processo, il punto di snodo consiste nello stile di coordinamento e di gestione delle risorse umane: importantissimo nel creare un nuovo concetto di fiducia a distanza, cui si deve aggiungere la relazione interpersonale diretta che non deve mai venir meno. Anche il giusto bilanciamento tra lavoro e famiglia si associa ad un maggior benessere individuale del lavoratore “casalingo”.

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