Previdenza

Anagrafe e requisiti, senza banca dati si arenano i controlli

di Giorgio Pogliotti e Claudio Tucci

Sin dall’avvio del reddito di cittadinanza è emerso tra le principali criticità, il punto debole dei controlli. Sulle oltre 1,6 milioni di domande presentate, l’Inps ha potuto controllare puntualmente solo le voci oggetto di convenzioni con altre amministrazioni dello Stato, relative al possesso dei requisiti patrimoniali e reddituali, presenti nella banca dati dell’Agenzia delle entrate(Isee, patrimonio mobiliare, immobiliare, reddito familiare del richiedente). Per l’attestazione di tutti gli altri criteri d’accesso, è previsto un ampio ricorso all’autocertificazione, con controlli su base campionaria successivi al pagamento del sussidio, come accade per le altre forme di sostegno sociale (Rei).

Un grosso limite riguarda il controllo dei requisiti anagrafici, ovvero la residenza in Italia da almeno 10 anni (di cui gli ultimi due in modo continuativo), lo stato di famiglia, che sono a carico dei comuni. In assenza dell’anagrafe dei comuni – su 8mila ce l’hanno 5.309, mancano città come Roma che sarà in regola a marzo – vale l’autocertificazione. Anche il possesso dei requisiti sui beni durevoli, ovvero moto e auto– la cilindrata e l’anno di immatricolazione – è affidato all’autocertificazione, visto che non risulta che l’Inps abbia neanche sottoposto una bozza di convenzione all’Aci, che ancora non ha ricevuto alcuna richiesta di controllo. La legge stabilisce che nessun componente del nucleo familiare possa essere intestatario di auto immatricolate nei sei mesi antecedenti la richiesta, di cilindrata oltre i 1.600 Cc, o moto oltre i 250 Cc immatricolate nei due anni precedenti. Così può accadere che un proprietario di auto di grossa cilindrata possa ottenere il reddito di cittadinanza, dichiarando il falso, sperando di farla franca nei controlli fatti in modo campionario, successivamente al pagamento del sussidio. Lo stesso discorso vale per il possesso delle imbarcazioni da diporto, considerato come un criterio che preclude il diritto a vedersi riconosciuto il sussidio.

In sostanza quanto la vicenda dei 237 “furbetti” scovati dalla Gdf di Locri mette in luce il limite dell’azione del legislatore che ad aprile 2019, poco prima delle elezioni europee, ha fatto partire il Rdc senza aver completato le convenzioni con le amministrazioni competenti, esponendo al rischio che molti possano impropriamente beneficiare dell’integrazione al reddito.

Sono previste pene molto severe per chi dichiarando il falso ottiene il sussidio (si rischia il carcere da 2 a 6 anni), ma evidentemente è un deterrente che in molti casi non funziona, anche nel bilancio complessivo dei controlli vanno citate le oltre 56mila domande decadute e le 456mila respinte e cancellate dall’Inps. «Aggravare le sanzioni penali non serve a nulla se non si garantisce la certezza della pena – sostiene Maurizio Del Conte, professore di diritto del lavoro alla Bocconi di Milano – . La verità è che il sistema informatico previsto dalla legge sul reddito di cittadinanza è rimasto sulla carta. Perciò non possono essere tracciate le attività obbligatoriamente poste a carico dei beneficiari e, dunque, non esiste la possibilità di un controllo automatico».

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©