Previdenza

La Corte costituzionale fa ripartire la riforma delle Camere di commercio

La Consulta respinge le ragioni di alcuni enti camerali che contestavano un insufficiente coinvolgimento nella predisposizione del decreto che riduce le Cdc da 105 a 60

di Antonello Cherchi

La nuova geografia delle Camere di commercio come disegnata dalla riforma Madia della pubblica amministrazione può vedere la luce. Si tratta di accorpare i 105 enti - che in realtà erano già stati ridotti a 95 - facendoli diventare 60. A ridare slancio all’intervento è stata la Corte costituzionale con la sentenza 169/2020, che ha respinto le richieste di alcune Cdc contenute in sette ordinanze di rimessione, con le quali si chiedeva un maggiore coinvolgimento nel ridisegnare la mappa degli enti camerali. Per i giudici costituzionali, invece, quanto fatto con dal ministero dello Sviluppo economico con il decreto del 16 febbraio 2018 -con il quale si è proceduto all’accorpamento -va bene.

Illegittimità a cascata
I ricorrenti sostenevano che quel decreto fosse investito,a cascata, dell’illegittimità costituzionale che aveva colpito il decreto legislativo da cui nasceva. Era, infatti, accaduto che il Dlgs 129 del 2016 - che attuava la delega contenuta nella riforma Madia, la legge 124 del 2015, a proposito delle Cdc - fosse finito davanti alla Consulta. Era successo nel 2017. Ai giudici in quell’occasione era stato chiesto di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della previsione del Dlgs 129 laddove affidava a un decreto ministeriale l’accorpamento degli enti. La norma del decreto legislativo prevedeva che il decreto avrebbe dovuto essere approvato sentito il parere della Conferenza Stato-Regioni.

La sentenza del 2017
La Consulta (sentenza 261 del 2017) aveva, invece, affermato che il decreto ministeriale con la nuova mappa delle Cdc dovesse essere adottato «previa intesa» con la Conferenza. Alla luce delle parole dei giudici costituzionali, il ministero dello Sviluppo economico era corso ai ripari e aveva presentato un nuovo testo e riprogrammato l’iter di approvazione: a più riprese tra dicembre 2017 e gennaio 2018 il Governo ha cercato l’intesa nella Conferenza Stato-Regioni, senza però raggiungerla. A febbraio 2018 il Consiglio dei ministri, visto che l’impasse permaneva, ha deciso di andare comunque avanti e ha autorizzato lo Sviluppo economico ad adottare il decreto.

Leale collaborazione rispettata
Secondo i ricorrenti, quel decreto non ha comunque rispettato i criteri di «leale collaborazione» tra poteri dello Stato. E per questo chiedevano che venisse investito dall’incostituzionalità reclamata per le norme principali (la legge delega e il decreto legislativo). Per la Corte, però, il mancato accordo sul decreto non raggiunto in Conferenza Stato-Regioni «non rileva»: «l’intesa -hanno affermato i giudici - non pone un obbligo di risultati ma solo di mezzi». Dunque, la riforma può proseguire.

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