Previdenza

Delocalizzazioni, l’azienda paga solo la politica attiva

di Claudio Tucci

L’azienda che decide di chiudere il sito produttivo in Italia dovrà predisporre un piano per limitare le ricadute occupazionali e produttive; e sarà tenuta a pagare le azioni di politica attiva per gestire “in maniera non traumatica” i possibili esuberi. Dovrà pagare solo queste misure, che spaziano dai servizi di orientamento, all’assistenza alla ricollocazione; alla formazione e riqualificazione professionale, finalizzati alla rioccupazione o all’autoimpiego del personale in uscita. Non ci saranno, cioè, altri esborsi o inserimenti in black-list; e non ci sarà più alcuna maxi-multa (in precedenza si era arrivati a ipotizzare fino al 2% del fatturato dell’ultimo esercizio). Se invece l’azienda non presenta questo piano, restano le sanzioni, con lo stop a contributi e finanziamenti pubblici per i successivi 5 anni; non sarebbe invece più previsto (ma il punto è ancora in discussione) il contributo di licenziamento in misura incrementata di dieci volte, visto che saranno comunque a carico della multinazionale tutte le spese delle misure di politica attiva.

Sono questi gli ulteriori correttivi al dl anti delocalizzazioni allo studio del governo, emersi dopo una riunione tecnica convocata da palazzo Chigi con l’obiettivo di fare il punto, con i ministeri coinvolti, sul provvedimento, le cui prime bozze, circolate nei giorni scorsi, sono state oggetto di forti e puntuali critiche, non solo da parte del mondo imprenditoriale.

Il lavorio tecnico proseguirà nei prossimi giorni, fanno sapere dal ministero del Lavoro, per dettagliare nello specifico le singole norme. Tutto il governo, hanno poi aggiunto dal dicastero guidato da Andrea Orlando, condivide la necessità di emanare un decreto legge per frenare le delocalizzazioni selvagge, e senza averi intenti punitivi nei confronti delle imprese; ma l’intervento normativo, dallo stesso Governo, è ritenuto necessario per rafforzare il quadro di norme già previsto oggi tra decreto dignità (articolo 5 che prevede che le imprese che hanno beneficiato di contributi pubblici, e delocalizzano, entro 5 anni dalla conclusione dell’iniziativa agevolata decadono dal beneficio stesso) e decreto Crescita (sui marchi storici).

Il nuovo decreto legge, secondo quanto si apprende dai tecnici dell’esecutivo, si applica alle aziende con almeno 250 dipendenti (sono poco più di 4mila sulla base dei dati Istat 2019, ndr) che, è scritto nelle bozze di provvedimento, intendono procedere alla «chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza». Ebbene, in queste fattispecie, le precedenti bozze descrivevano un percorso da seguire abbastanza tortuoso e, soprattutto, “sub judice”, dando la possibilità al Mise di accendere semaforo rosso al piano, e bloccare così l’impresa.

Adesso, con i correttivi sui cui si sta ragionando, su input di palazzo Chigi, si semplifica il percorso obbligato: il perno resta sempre la predisposizione del piano per gestire i possibili esuberi, ma avrà tempi più dilatati (si ipotizzano 5/6 mesi per mettere in campo gli interventi di politica attiva, sostanzialmente raddoppiando i termini oggi previsti dalla legge 223/1991 sui licenziamenti collettivi - per le aziende più grandi 75 giorni, vale a dire due mesi e mezzo - per la consultazione sindacale), superati i quali procedere agli atti di recesso datoriali. Sulle sanzioni in caso di mancata presentazione del piano, che deve contenere anche eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, la trattativa non è del tutto chiusa. Al momento, si ipotizza di mantenere il solo stop ai contributi pubblici per i successivi 5 anni (si sta discutendo sull’incremento di dieci volte del contributo di licenziamento). L’istruttoria tecnica è in corso. L’obiettivo, condiviso da tutto il governo, è portare il dl in Cdm la prossima settimana.

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