Rapporti di lavoro

La consulta modernizza il «pubblico»

di Lorenzo Zoppoli

In un momento in cui molto si discute di semplificazione amministrativa e sburocratizzazione degli apparati pubblici, merita di essere segnalata all’attenzione generale una sentenza recente (la 128 del 25 giugno) della Corte costituzionale in tema di lavoro pubblico.

Il tema è molto delicato per due ragioni. Anzitutto tratta di impiego presso le Regioni, cioè amministrazioni con autonomia ampia garantita dalla Costituzione, ma al centro di polemiche continue, rinfocolate dai contrasti centro/periferia nella gestione della crisi sanitaria da Covid-19. In secondo luogo si affronta una questione riguardante gli incarichi per le cosiddette “posizioni organizzative”, cioè dipendenti di alta professionalità, simili ai “quadri” del settore privato o, con termine più à la page, figure di middle management. Siamo quindi in prossimità della dirigenza, da cui secondo tanti dipendono le sorti di amministrazioni più moderne, snelle ed efficaci.

Purtroppo proprio sul management pubblico non si riesce, da almeno dieci anni, a realizzare un assetto normativo appagante: le radicali riforme degli anni ’90 hanno subito una brusca frenata soprattutto per le crisi politico-finanziarie di 10 anni fa; e i rimedi abbozzati in seguito si sono arenati inseguendo improbabili marce indietro all’insegna di un drastico irrigidimento della legislazione su accessi, doveri e poteri delle dirigenze pubbliche. Neanche la riforma Madia del 2017 – o i deboli segnali del governo Conte 1 – hanno mutato il quadro. Perciò merita apprezzamento ogni pur minimo segnale che indichi evoluzione della cultura giuridico-istituzionale su questi temi, pur in una cornice di regole incompiute e confuse. Una dirigenza avviluppata in vincoli normativi, a cominciare dalle procedure per assegnare e revocare incarichi, è quanto di peggio si possa immaginare per far funzionare le nostre amministrazioni.

La sentenza che si citava è anche più apprezzabile perché affronta con coraggio una questione che riguarda la semi-dirigenza, cioè una fascia di personale per la quale ancora di più leggi e contratti collettivi prevedono limiti e vincoli di ogni tipo. Nella specie, una legge della Regione Toscana aveva derogato per non più di un anno al vincolo posto dal contratto collettivo nazionale del 2018 alla durata degli incarichi di posizione organizzativa. Il Governo, impugnando la legge regionale, sosteneva che così viene invasa la potestà legislativa statale in quanto in essa rientra la disciplina della contrattazione nazionale da considerare «ordinamento civile», cioè la materia attribuita in via esclusiva allo Stato dall’articolo 117, comma 2, lettera l), della Costituzione, in cui ormai da anni si fa rientrare la disciplina dei contratti di lavoro pubblico.

La Corte giustamente ritiene invece che la disciplina delle posizioni organizzative, in quanto inerisce a profili dell’organizzazione mutevoli e non dà vita a criteri di inquadramento del personale stabili e di durata indeterminata, rientra «nell’ordinamento e organizzazione amministrativa regionale e quindi nella competenza legislativa residuale della Regione» prevista dal medesimo articolo 117 al comma 4 . Le questioni tecniche che stanno dietro questa decisione sono, come sempre, plurime e complesse. Però la sintesi è piuttosto semplice: com’è possibile che un’amministrazione cui la Costituzione riconosce ampia autonomia non possa nemmeno allungare di pochi mesi la durata di incarichi di alta responsabilità (nella specie di avvocati e ingegneri)? Per di più tale allungamento non presentava alcun aggravio in termini di spesa ed era anzi finalizzato a meglio ponderare un adeguamento del trattamento economico derivante da leggi statali entrate in vigore con gravi ritardi.

Ricorrono insomma nel caso deciso tutti i presupposti delle ben note paralisi “incrociate” che provocano inefficienze a catena con gravi danni per i cittadini e gli operatori economici. Ben venga allora una soluzione netta che riconosca alle singole amministrazioni ampi margini per una gestione di istituti riguardanti i rapporti di lavoro che si ripercuotono immediatamente su assetti e responsabilità organizzative. Insomma spazio alla delegificazione, anche se, purtroppo e contraddittoriamente, mediata da leggi regionali. Almeno queste ultime possono meglio tener conto delle specificità di servizi e risorse.

Poi non c’è dubbio che occorre andar oltre: snellire e semplificare il più possibile, a cominciare dalle fonti delle regole ineliminabili, persino se è necessario correre qualche rischio. Perciò sentenze come quella segnalata vanno nella direzione giusta e meritano ogni apprezzamento. Anche perché la Corte costituzionale sembra ben avvertita dei rischi e non manca di ricordare i paletti ineludibili nei principi di buon andamento e imparzialità di cui all’articolo 97 della Costituzione, seppure da interpretare modernamente.

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