Rapporti di lavoro

Tenere il divieto di licenziamento può comportare un effetto valanga

di Giampiero Falasca

Il binomio sussidi-divieti che ha caratterizzato le politiche del lavoro nella prima fase della crisi da Covid-19 ha spento sul nascere un possibile incendio occupazionale, ma non può diventare la linea guida per la fase post emergenziale, perché rischia di soffocare la mobilità in entrata e in uscita dalle imprese, danneggiando i soggetti più deboli (i giovani, le persone in cerca di una ricollocazione, i lavoratori flessibili e i precari).

È giusto ricordare che alcune scelte di fondo compiute in questi messi hanno svolto un ruolo fondamentale per la tenuta del sistema economico, a partire dal potenziamento della cassa integrazione, che ha attenuato gli effetti occupazionali della crisi e ha aiutato le imprese a gestire un momento di grandissima incertezza.

Un risultato raggiunto nonostante le mille difficoltà procedurali dovute alle inefficienze croniche della pubblica amministrazione e nonostante alcune scelte infelici (come il rinvio alle Regioni e agli accordi sindacali per la cassa in deroga).

Il potenziamento della cassa integrazione ha reso sostenibile, sul piano economico e giuridico, un provvedimento unico nella storia repubblicana (e anche nelle principali economie occidentali) come il “divieto di licenziamento”.

Il legislatore ha deciso di imporre a tutti i datori di lavoro una fortissima limitazione della propria libertà imprenditoriale. La legittimità costituzionale di una scelta del genere è molto dubbia, soprattutto per il conflitto che si viene a generare con l’articolo 41 della Costituzione. Non c’è dubbio che la “tensione” con i principi costituzionali cresce se la misura perde il suo carattere temporaneo.

Il Governo dovrebbe tenere conto di questo aspetto prima di prorogare oltre il 17 agosto questa misura, anche perché una scelta del genere potrebbe aggravare la situazione economica di molte imprese, alle quali viene di fatto preclusa la possibilità di compiere quelle scelte, anche dolorose, necessarie per salvare, almeno in parte, la continuità dell’impresa (e di conseguenza tutelare almeno una quota dei posti di lavoro).

Una proroga del divieto non aiuterebbe nemmeno quei lavoratori che oggi si trovano nella scomoda posizione di “esuberi nascosti”, in quanto i loro posti di lavoro sono stati spazzati via dal Covid-19.

Questi lavoratori devono iniziare quanto prima un percorso di ricollocazione; lasciarli troppo a lungo in un limbo di apparente occupazione impedisce l’avvio di questo percorso e ne riduce le prospettive di riuscita.

La proroga del divieto di licenziamento potrebbe, inoltre, generare un effetto valanga, concentrando alla prima scadenza utile un numero eccessivo di licenziamenti. Un effettoche andrebbe in tutti i modi evitato, cercando almeno di “scongelare” a scaglioni alcune situazioni.

Ovviamente, non si può pensare che basti “scongelare” i licenziamenti per riportare il mercato del lavoro entro un binario ordinario.

Serve un forte investimento su un’infrastruttura sempre troppo trascurata: il sistema normativo. È necessario riprogettare il futuro del nostro ordinamento lavoristico, puntando su regole più efficienti e moderne, in grado di attirare e mantenere gli investimenti.

La competizione tra ordinamenti dopo l’emergenza sanitaria sarà ancora più feroce: il nostro sistema dovrebbe preoccuparsi di offrire alle imprese regole certe, chiare da applicare e stabili nel tempo, per convincere le imprese a restare in Italia.

Le misure approvate in questi mesi vanno nella direzione opposta: sono oscure, esposte a cambiamenti costanti (e interpretazioni creative provenienti da “fonti” improprie come le Faq sui siti internet dei ministeri) e seguono una filosofia più attenta alla demagogia che alle effettive esigenze del mercato (come ad esempio la scelta di prorogare forzatamente i rapporti a termine).

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