Rapporti di lavoro

Sulla via Emilia il lavoro smart avanza tra dubbi e resistenze

di Ilaria Vesentini

Può lo smart working prendere piede nei distretti industriali e proiettare la manifattura nell’era 4.0 non solo in tema di tecnologie ma di lavoro? È la domanda cui aziende e sindacati stanno cercando di dare risposta lungo la via Emilia, da sempre laboratorio di contratti pilota, dove alcune fabbriche – soprattutto della packaging e della motor valley - stanno facendo tesoro dell’esperienza emergenziale Covid per inglobare i nuovi paradigmi del lavoro agile negli accordi di secondo livello, in attesa di una legge quadro nazionale. Non senza dubbi e resistenze da parte degli imprenditori, soprattutto nelle Pmi, perché l’imprinting familiare mal si concilia con la remotizzazione delle relazioni e dello spirito di squadra. Con il rischio di allargare il divario tra tute blu – per cui lo smart working è impossibile - e colletti bianchi e di innescare conflitti sindacali, perché per questioni di equità, efficienza e costi aziendali non si possono garantire gli stessi benefici (come auto aziendali e buoni pasto) a chi deve prestare la propria mansione in azienda e chi ha il beneficio di autogestirsi sedi e orari di lavoro. Questioni che hanno spinto un’azienda come la modenese Hpe Coxa, fornitrice chiave di tecnologie ingegneristiche per la motorvalley, a riunire a porte chiuse il gotha nazionale della meccanica, dei trasporti, della consulenza e del mondo accademico, bancario e militare per mettere a fattor comune le rispettive esperienze e iniziare a fissare i paletti della roadmap verso il lavoro 4.0.

Il caso Nbi

«La prestazione lavorativa potrà essere svolta in modalità agile da quattro a dieci giorni al mese (non frazionabili), potrà essere prestata solo nella fascia dalle 7.00 alle 21.00 nei giorni feriali, garantendo quattro ore di “contattabilità” con la piena gestione flessibile del tempo nelle rimanenti ore (in cui il dipendente ha diritto a disconnettersi e a non rispondere a telefono) e pari garanzie rispetto al lavoro prestato in via “ordinaria” in quanto a contributo mensa, diritti sindacali, partecipazione alle assemblee sindacali». Sono i paletti dell’accordo pilota raggiunto con i sindacati dalla bolognese NBI (gruppo Astaldi), che sarà sperimentato su base volontaria fino a fine anno, supportato da formazione su sicurezza, competenze telematiche e comportamenti.

I lavoratori

«L’esperienza del Covid ha impresso un’accelerazione impensabile anche nelle grandi aziende, soprattutto della packaging valley, che da sempre fungono da laboratorio sociale - conferma il segretario della Fiom Cgil di Bologna, Michele Bulgarelli -. In GD-Coesia che già nel 2017 aveva previsto di implementare forme di smart working nel quadriennio dell’accordo, partendo dalla flessibilità dell’orario di lavoro, abbiamo distribuito un questionario a tutti i lavoratori remotizzati questa estate (circa il 55% dei quasi 2mila dipendenti della società, ndr) che diventerà la base dell’accordo che contiamo di formalizzare tra fine anno e il 2021, nella vigenza dell’attuale integrativo. Dopo l’emergenza sanitaria non si tratta più di discutere del se e del come implementare il lavoro autogestito da remoto, ma solo del quando».

La mappatura

Fiom ha completato anche una mappatura delle principali aziende metalmeccaniche nel capoluogo: su 97 imprese con più di 100 addetti (un campione rappresentativo di oltre 27.600 lavoratori), sono 57 quelle che ancora stanno utilizzando lo smart working in modo diffuso dopo l’emergenza Covid e sei hanno formalizzato accordi sindacali specifici: il leader dei motoriduttori Bonfiglioli e i due marchi dei bolidi Ducati e Lamborghini già prima della pandemia avevano regolato forme di lavoro agile (più che agile è da remoto) «Ima ha definito nel dettaglio questa estate le modalità di fruizione, all’interno dell’accordo complessivo sulla conciliazione dei tempi di vita e lavoro, mentre Site ha siglato il primo accordo in Italia di smart working nelle installazioni telefoniche. E poi c’è NBI. Ma anche il terzo big del packaging, il gruppo Marchesini, ha ammorbidito il suo approccio contrario al lavoro agile, dopo che in 8 lavoratori su dieci si sono espressi a favore. Così come in Interpump (pompe idrauliche), azienda scettica sull’utilizzo dello smart working, è il 90% dei lavoratori oggi a chiederlo, dopo averlo sperimentato nei mesi di emergenza sanitaria», precisa Bulgarelli.

La voce delle imprese

«Il grande impegno nella digitalizzazione che stiamo portando avanti come Confindustria Emilia – sottolinea il presidente Valter Caiumi – va proprio nella direzione di supportare gli imprenditori che optano per lo smart working, che implica una nuova cultura di impresa in linea con i concetti chiave del mio mandato quali comunicazione convergente, ricerca collaborativa, intelligenza di comunità. Va tesaurizzata l’esperienza emergenziale del Covid, dove abbiamo toccato con mano che le infrastrutture non sono un limite, che negli incontri e nella formazione da remoto si possono coinvolgere figure più autorevoli e che si risparmia molto tempo. Ci sono aspetti negativi, dalla minor sicurezza alla minor produttività di alcune persone – conclude Caiumi - ma facendo la somma dei più e dei meno il risultato è positivo. Ora si deve lavorare a normare la formula dello smart working in modo fluido, per salvaguardare anche contatti umani, brainstorming, intelligenza emotiva».

Il modello Tetra Pak

Gli stabilimenti modenesi di Tetra Pak, dove lo smart working è di casa da almeno un decennio, sono un benchmark in regione anche per le amministrazioni pubbliche. Nei siti di Modena e Rubiera, dove lavorano quasi 1.500 persone sulle soluzioni per il confezionamento del food, si è passati da percentuali di addetti in smart working tra il 10 e il 20% pre-Covid all’80% da marzo fino all’estate e ora il lavoro agile interessa tra il 50 e il 60% dei dipendenti non operativi in produzione. «Lo smart working è radicato nel nostro modo di lavorare e anche nella cosiddetta nuova normalità sarà molto più agevole per i dipendenti bilanciare vita professionale ed esigenze personali. Durante l’emergenza Covid siamo riusciti a implementare nuove modalità di relazione, lavoro e supporto ai clienti, contribuendo ad accelerare il processo di costante innovazione che da sempre contraddistingue il gruppo», spiega il presidente di Tetra Pak Italia, Francesco Faella. Tetra Pak è stata tra le prime aziende in Italia, allo scattare delle misure anticontagio, ad estendere lo smart working a tutto il personale in produzione, garantendo nel contempo sia le forniture alla filiera alimentare sia sicurezza e salute dei dipendenti, tanto che nel periodo di emergenza la produzione di macchine e carta è sempre stata a pieno regime e i piani di consegna originali rispettati. «E se la produttività del lavoro agile è complessa da misurare – precisa il gruppo - sicuramente l’indice di efficienza è anche aumentato con lo smart working».

Il nodo sicurezza

Non è tutto oro quel che luccica, precisa il vicepresidente con delega alle Relazioni industriali di Confindustria Romagna, Roberto Bozzi, che nella sua azienda Vulcaflex (tecnotessuti plastici per automotive) ha messo quasi tutti i 120 impiegati in smart work durante l’emergenza sanitaria, «spinto, come la gran parte dei miei colleghi imprenditori, da grande senso di responsabilità. Già oggi però la maggior parte delle aziende manifatturiere sono tornate al lavoro in presenza, perché la modalità agile funziona davvero solo per i quadri e per chi lavora su obiettivi e data entry, non per i livelli medi che si devono interfacciare con i manager o per le giovani leve che hanno bisogno di essere affiancate e di assorbire la cultura aziendale. Prima di discutere di inserire forme di smart working nella contrattazione di secondo livello è opportuno venga regolato lo strumento al primo livello con una norma nazionale e una visione comune e condivisa che affronti tutti i nodi, a partire da quello della sicurezza dei lavoratori e della cybersecurity». È uno degli Ict player italiani più innovativi, la società forlivese Vem Sistemi, ad ammettere che il limite dello smart working, pur applicato in aziende di servizi, è «nella difficoltà di comunicazione aziendale, che peggiora molto da remoto, nell’inefficienza del lavoro non in presenza quando si opera con team di oltre 4 persone e nella scarsa qualità delle connessioni in diverse aree del territorio», spiega il Cfo e vicepresidente Davide Stefanelli, che da sempre utilizza forme di lavoro agile a rotazione, istituzionalizzate un anno fa e aveva già dotato quasi tutti i 250 dipendenti, già ben prima del Covid, di pc portatili, cuffie, videoconnessioni. Finita l’emergenza, la logica che spinge i distretti manifatturieri della via Emilia verso lo smart work sembra più il benessere dei collaboratori per avere persone più motivate e soddisfatte in azienda.

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