Rapporti di lavoro

«Il disincentivo? I redditi sempre più bassi»

Per Giorgio De Rita, segretario generale del Censis, la fuga dalle libere professioni è in atto. «Si tratta - spiega - di un fenomeno dalle mille sfaccettature, ma c’è un collettivo arretramento rispetto alla volontà di avviare una professione autonoma».

Perché?

Il cuore del problema è che negli ultimi anni i redditi medi dei professionisti sono rimasti immutati o si sono addirittura ridotti, con una perdita del valore reale che sfiora il 3 per cento. I dati ci dicono anche che tra gli abilitati cala in modo significativo in diverse categorie la componente femminile: e i redditi medi delle donne sono più bassi di quelli degli uomini. È vero che questo sconta il fatto che l’età media delle donne iscritte agli Albi sia più bassa di quella dei maschi, ma non cambia il risultato che la disaffezione verso le professioni sia legata alla condizione reddituale.

La grande corsa al lavoro autonomo si è dunque fermata?

Sì. Abbiamo alle spalle una storia di crescita degli iscritti agli Ordini di forte progressione dal 1985 in poi, fino ai 2,5 milioni di professionisti attuali. Oggi quella tendenza si è interrotta e la sua evoluzione va vista anche considerando il dato demografico: da qui a 15 anni la platea dei ragazzi tra i 19 e i 24 anni si ridurrà di 500mila unità. Questo significa che in prospettiva ci saranno meno giovani, meno iscritti all’università e meno laureati.

Sulla fuga dalle professioni può influire l’appeal del posto nella pubblica amministrazione, tanto più ora che il Pnrr apre nuove opportunità?

No. Il miraggio del posto fisso c’è sempre stato. E le chance del Pnrr sono a tempo determinato e rischiano di diventare sacche di precariato.

Quando si faranno sentire le conseguenze dell’abbandono delle professioni?

Tra 15-20 anni.

Cosa significherà per il sistema Paese?

L’abbiamo visto con quanto successo con i medici durante l’emergenza sanitaria: nel momento in cui quelle figure professionali diventano determinanti, la loro mancanza diventa la cartina di tornasole della fragilità strutturale del Paese. La penuria di professionisti qualificati, che abbiano anche la cultura della libera professione - ovvero la capacità di passare da un progetto a un altro o di andare in giro per il mondo a confrontarsi - e non solo le competenze tecniche, significa la debolezza economica e culturale del Paese.

Per quanto riguarda le categorie professionali più affollate, non si può leggere in modo positivo la contrazione di nuove leve?

No, perché alcune figure professionali rappresentano una componente essenziale del nostro modello produttivo; hanno svolto un ruolo di supporto al sistema Paese molto significativo. E in un momento in cui si deve rincorrere un nuovo modello di sviluppo, con il Pnrr o senza, si ha bisogno di segni di modernità: ed è quello che può venire dalle libere professioni.

Come si può intervenire?

La chiave è sempre la stessa, per le imprese così come per le professioni: bisogna investire. Investimenti pubblici e privati. E invece manca una programmazione in tal senso. Non si può, per esempio, pensare che siccome l’agevolazione del 110% sta dando un po’ di fiato a ingegneri e architetti, sia quella la chiave per ripartire in quei settori. Sarebbe un errore drammatico. Si deve uscire dalla logica del bonus.

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