Contenzioso

Rassegna della Cassazione

a cura dello Studio Toffoletto De Luca Tamajo

Licenziamento per giustificato motivo
Licenziamento e giustificazioni scritte
Sulla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e licenziamento
Nozione di lavoro giornalistico
Accordo sindacale e condizione meramente potestativa

Licenziamento per giustificato motivo

Cass. Sez. Lav. 6 dicembre 2018, n. 31652

Pres. Nobile; Rel. Ponterio; P.M. Mastrobernardino; Ric. V.M.; Controric. I.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giustificato motivo - Fungibilità delle mansioni - Scelta dei lavoratori da licenziare - Criteri ex art. 5 della l. n. 223 del 1991 - Applicabilità - Criteri ulteriori - Legittimità - Condizioni - Fattispecie

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ravvisato nella soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili perchè occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, il datore di lavoro deve individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede; in questo contesto l'art. 5 della l. n. 223 del 1991 offre uno “standard” idoneo ad assicurare una scelta conforme a tale canone, ma non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati.
NOTA
Nel caso in esame il Tribunale e la Corte di Appello confermavano la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo comunicato al lavoratore.
La Corte d'appello aveva, infatti, ritenuto dimostrato che un anno prima della soppressione della posizione era stato installato presso la società un nuovo software operativo che aveva comportato la riduzione dell'attività di inserimento dei dati; di riflesso, era divenuto esorbitante il numero dei dipendenti addetti alla elaborazione e gestione dei dati. Per la Corte era evidente come tale innovazione tecnica avesse determinato l'esigenza di ridurre la forza lavoro.
Avverso la sentenza della Corte proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore contestando l'omessa applicazione dei criteri di scelta, quali espressione dei principi di correttezza e buona fede, nell'individuazione del lavoratore da licenziare.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Ed infatti, per la Cassazione l'esigenza, derivante da ragioni inerenti all'attività produttiva, di ridurre di una o più unità il numero dei dipendenti dell'azienda, se non dà luogo ad un'ipotesi di licenziamento collettivo, rappresenta un giustificato motivo oggettivo di licenziamento individuale, la cui legittimità dipende, sia, dalla comprovata impossibilità di utilizzare aliunde il lavoratore, sia dal rispetto delle regole di correttezza di cui all'articolo 1175 c.c. nella scelta del lavoratore licenziato, tra più lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità.
La stessa giurisprudenza si è posta il problema di individuare in concreto i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di correttezza e buona fede ed ha ritenuto di poter fare riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri dettati dalla Legge 223 del 1991 (articolo 5) per i licenziamenti collettivi, prendendo in considerazione in via analogica i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità.
Alla luce dei summenzionati principi per la Cassazione la Corte di merito, una volta appurata l'esistenza di una ragione organizzativa di riduzione di una unità di personale addetto alle mansioni di immissione e elaborazione dati, avrebbe dovuto verificare il rispetto da parte della società delle regole per l'individuazione del lavoratore da licenziare quindi il rispetto dei principi di correttezza e buona fede, imposti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., e parametrati ai criteri di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5 fornendo la prova delle ragioni della scelta del lavoratore licenziato.

Licenziamento e giustificazioni scritte

Cass. Sez. Lav. 17 dicembre 2018, n. 32607

Pres. Manna; Rel. Lorito; P.M. Patrone; Ric. G.P.; Controric. P.I. S.p.A.

Licenziamento – Giustificazioni scritte – Termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito – Tempestività - Condizioni

La compressione ingiustificata del diritto del lavoratore - consacrato dalla legge e dal contratto stipulato dalle parti sociali - di opporre difese rispetto all'atto di incolpazione formulato da parte datoriale, si traduce nella conseguente illegittimità dell'atto cui è preordinata la procedura disciplinare; con effetti sovrapponibili a quelli ravvisati dalla costante giurisprudenza di questa Corte nella ipotesi di violazione del diritto del lavoratore di essere “sentito a difesa”, in termini di illegittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare.
La Corte di Appello di Roma confermava la pronuncia del giudice di primo grado, che aveva respinto l'opposizione formulata dalla lavoratrice avverso l'ordinanza, resa all'esito della fase sommaria, con la quale era stata ritenuta non fondata l'impugnativa del licenziamento intimato alla medesima dalla società datrice per assenza ingiustificata dal lavoro.
A fondamento del decisum la Corte territoriale negava la fondatezza della tesi sostenuta dalla lavoratrice circa la nullità della sanzione disciplinare per violazione dell'art. 7 della l. 300/70 e dell'art. 55 del c.c.n.l. di settore, posti a tutela del diritto di difesa della lavoratrice, le cui giustificazioni non erano state ritenute tempestive dalla datrice di lavoro. La Corte distrettuale osservava che non poteva ritenersi elemento sufficiente a far presumere l'esistenza di un vulnus al diritto di difesa il semplice dato formale, contenuto nella lettera di licenziamento, con cui si negava che la lavoratrice avesse prodotto alcuna giustificazione nei termini prefissati, tenuto conto che la determinazione di procedere alla irrogazione della sanzione espulsiva era stata, comunque, assunta all'esito delle “risultanze tutte del procedimento disciplinare”.
Il giudice del gravame rilevava, altresì, la legittimità del provvedimento di trasferimento della lavoratrice presso la sede di Torino, adottato dalla società datrice a seguito della pronuncia giudiziale di riammissione nel posto di lavoro, conseguente alla declaratoria di nullità del termine apposto al contratto intercorso inter partes, in ragione della situazione di eccedentarietà sussistente presso la sede di provenienza (Fiumicino).
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice sulla base di plurimi motivi.
In particolare, la ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della l. n. 300/1970 e dell'art. 55 del c.c.n.l. di settore, criticava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva affermato che, decorsi i cinque giorni dal ricevimento della contestazione di addebito da parte del lavoratore, legittimamente il datore di lavoro aveva posto in essere il provvedimento sanzionatorio espulsivo, non tenendo conto della circostanza che le giustificazioni del lavoratore erano state inviate per raccomandata a.r. prima della scadenza del termine di cinque giorni, e che, in ogni caso, dette giustificazioni erano pervenute al datore di lavoro prima della adozione del provvedimento sanzionatorio espulsivo.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso.
Innanzitutto, i giudici di legittimità, dopo aver riportato il testo della norma contrattuale di settore applicabile, rilevavano che alla stregua del significato letterale inequivoco della stessa – nella quale era fatto riferimento alla presentazione delle giustificazioni e non anche alla ricezione delle stesse da parte datoriale -, doveva ritenersi che le parti sociali avessero inteso riferire il termine di decadenza per l'esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, al momento dell'invio delle giustificazioni e non a quello della ricezione delle medesime da parte del datore di lavoro, non potendo prospettarsi ragionevoli dubbi sull'effettiva portata del significato della clausola (cfr. Cass 3 giugno 2014, n. 12360; Cass. 10 marzo 2008, n. 6366).
La Suprema Corte riteneva, pertanto, non conforme a diritto la statuizione con la quale la Corte distrettuale aveva considerato tardive le giustificazioni rese dal lavoratore, benché le stesse fossero state spedite, mediante raccomandata a.r., entro il termine di cinque giorni dal ricevimento della lettera di contestazione di addebito da parte datoriale.
Quale corollario dei summenzionati principi, la Suprema Corte rilevava dunque che doveva considerarsi contra jus anche l'ulteriore statuizione contenuta nella sentenza di appello, con la quale si era ritenuto che la parte datoriale avesse legittimamente irrogato la massima sanzione disciplinare, omettendo di considerare le giustificazioni tempestivamente rese dal lavoratore, sull'erronea supposizione della loro tardività. Secondo quanto sostenuto dai giudici di legittimità tale statuizione vulnerava il diritto del lavoratore ad esercitare pienamente il proprio diritto di difesa ed al contraddittorio, sancito sia dalla disposizione statutaria di cui all'art.7 Stat. Lav., che dalla specifica disposizione collettiva di settore.
La Suprema Corte concludeva affermando che la compressione ingiustificata del diritto del lavoratore, consacrato dalla legge e dal contratto stipulato dalle parti sociali, di opporre difese rispetto all'atto di incolpazione formulato da parte datoriale, si traduce nella soppressione di uno degli atti di cui la sequenza procedimentale si compone, e nella conseguente illegittimità dell'atto cui è preordinata la procedura disciplinare medesima, con effetti sovrapponibili a quelli ravvisati dalla costante giurisprudenza della Suprema Corte nella ipotesi di violazione del diritto del lavoratore di essere “sentito a difesa”, in termini di illegittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare (cfr. ex plurimis, Cass. 9 gennaio 2017, n. 204; Cass. 12 novembre 2015, n. 23140; Cass. 10 luglio 2015, n. 14437; Cass. 10 marzo 2010, n. 5864).
Alla stregua di tali considerazioni i giudici di legittimità statuivano, infine, il principio di diritto in virtù del quale il fatto di considerare tardive delle giustificazioni scritte in realtà tempestive equivale a negare al lavoratore il suo diritto di difesa e al contraddittorio, con violazione del procedimento sancito dall'art.7 legge n.300 del 1970 non dissimile dalla violazione che si verifica quando il lavoratore abbia invano chiesto di essere ascoltato di persona.

Sulla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 26 ottobre 2018, n. 27243

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.V.; Controric. F.G.I.C. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Diritto alla conservazione del posto - Infortuni e malattie - In genere - Sopravvenuta inidoneità fisica - Conseguente impossibilità sopravvenuta della prestazione - Giustificato motivo di recesso - Condizioni - Fattispecie.

Nel caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, 1'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, potendo essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività riconducibile alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti ovvero, se ciò sia impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, senza alterazione dell'assetto organizzativo della medesima.
NOTA
La sentenza in esame riguarda il licenziamento di un lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica dello stesso (divenuto ipovedente) allo svolgimento delle mansioni di operaio.
La sentenza di primo grado, che aveva rigettato la domanda del lavoratore di accertamento dell'illegittimità del licenziamento, veniva confermata dalla Corte di Appello di Milano, che riteneva legittimo il licenziamento in considerazione della accertata sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni assegnate, della assoluta impossibilità di ricollocamento e dell'insussistenza di un obbligo del datore di lavoro di licenziare altro lavoratore al fine di liberare una posizione lavorativa o di creare ex novo un posto di lavoro compatibili con le residue capacità lavorative del dipendente.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha rigettato il ricorso, richiamando innanzitutto il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore (Cass. n. 7755/1998).
Inoltre, prosegue la Corte, la necessità di bilanciare la tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti del prestatore di lavoro con la libertà di iniziativa economica dell'imprenditore (garantita dall'art. 41 Cost. e definita come diritto fondamentale dagli artt. 15 e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, la “Carta di Nizza”), comporta che l'assegnazione del lavoratore (divenuto fisicamente inidoneo allo svolgimento della sua mansione) ad attività diverse e riconducibili alla stessa mansione, o ad altra mansione equivalente, o anche a mansione inferiore, può essere rifiutata legittimamente dall'imprenditore se comporti oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell'azienda ed alle relative risorse finanziarie) e, in particolare, se derivi, a carico di singoli colleghi dell'invalido, la privazione o l'apprezzabile modificazione delle modalità di svolgimento della loro prestazione lavorativa, che comportino un'alterazione dell'organizzazione aziendale.
In conclusione, il diritto del lavoratore disabile all'adozione di accorgimenti che consentano l'espletamento della prestazione lavorativa trova un limite nell'organizzazione interna dell'impresa, e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell'impresa stessa, nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate, e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisita.
Ebbene, nel caso di specie, la Corte d'Appello, uniformandosi ai suddetti principi, aveva ritenuto assolto l'obbligo del datore di lavoro di tutela del lavoratore disabile, in considerazione dell'accertata insussistenza - nell'ambito dell'organizzazione aziendale e del rispetto delle mansioni assegnate al restante personale in servizio - di mansioni equivalenti o inferiori da affidare al lavoratore stesso. Per tali motivi, come anticipato, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore.

Nozione di lavoro giornalistico

Cass. Sez. Lav. 19 dicembre 2018, n. 32699

Pres. Bronzini; Rel. ; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.G.; Controric. I. E. s.p.a.;

Lavoro giornalistico - Subordinazione - Collaboratore fisso ex art. 2 CNLG - Vincolo di dipendenza - Necessità

Con riferimento all'attività giornalistica, rilevano ai fini della individuazione del rapporto di lavoro subordinato l'ampiezza di prestazioni e l'intensità della collaborazione, che devono essere tali da comportare l'inserimento stabile del lavoratore nell'organizzazione aziendale, intendendo per stabilità il risultato di un patto in forza del quale il datore di lavoro possa fare affidamento sulla permanenza della disponibilità senza doverla contrattare volta per volta, dovendosi distinguere tra i casi, riconducibili al lavoro subordinato, in cui il lavoratore rimane a disposizione del datore di lavoro tra una prestazione e l'altra in funzione di richieste variabili e quelli, riconducibili al lavoro autonomo, in cui è invece configurabile una fornitura scaglionata nel tempo, ma predeterminata, di più opere e servizi in base ad unico contratto, con l'avvertenza che può influire nella distinzione anche il dato quantitativo relativo all'entità degli interventi del committente in corso d'opera.
NOTA
La Corte d'Appello di Genova ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto della domanda di una lavoratrice volta all'accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro con una casa editrice, con qualifica di collaboratrice fissa ai sensi dell'art. 2 CNLG. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente il requisito della continuità della prestazione in ragione del numero di articoli pubblicati e del tenore del contratto di collaborazione coordinata e continuativa stipulato, nonché il requisito della responsabilità di un servizio avendo la lavoratrice seguito dapprima specifiche rubriche e poi un intero settore. Tuttavia, secondo la Corte d'Appello non si è accertato il vincolo di dipendenza - parimenti necessario ai sensi dell'art. 2 CNLG per la qualifica di collaboratore fisso - non essendo emerso l'obbligo della lavoratrice di rendersi disponibile anche negli intervalli tra una prestazione e l'altra, risultando le richieste di redigere articoli quali semplici proposte della redazione, che la destinataria era libera di accettare o rifiutare. Parimenti compatibili anche con un rapporto di lavoro autonomo, le circostanze accerte in ordine alle direttive aziendali sulla lunghezza, sui tagli degli articoli e sui tempi di consegna nonché la prassi di avvertire la redazione solo in caso di assenze superiori alla settimana.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo, censurando l'interpretazione del vincolo di dipendenza dato dai giudici territoriali ed asserendo che tale requisito, proprio perché richiesto dall'art. 2 CNLG in aggiunta agli altri due della continuità della prestazione e responsabilità di un servizio, non può coincidere con una vera e propria forma di subordinazione, dovendo questa desumersi dalla concorrenza dei tre elementi.
La Suprema Corte rigetta il ricorso affermando il principio di cui alla massima, già sancito in numerosi precedenti (Cass. 20 agosto 2003, n. 12252; Cass. 7 ottobre 2013, n. 22785; Cass. 3 marzo 2009, n. 5079). Sempre riprendendo principi consolidati la Cassazione ricorda che la sussistenza del rapporto di lavoro di collaborazione fissa ex art. 2 CNLG esige la continuità della prestazione, il vincolo della dipendenza e la responsabilità di un servizio e tali requisiti sussistono quando il soggetto, sebbene non impegnato in un'attività quotidiana - che contraddistingue invece quella del redattore - adempia l'incarico ricevuto svolgendo prestazioni non occasionali rivolte ad esigenze informative di un determinato settore di vita sociale e assumendo la responsabilità del servizio. L'accertamento della sussistenza di un tale rapporto implica, quindi, sia l'impegno di redigere normalmente e con carattere di continuità articoli su argomenti specifici, sia un vincolo di dipendenza, che non venga meno nell'intervallo fra una prestazione e l'altra, sia, infine, l'inserimento sistematico del soggetto nell'organizzazione aziendale” (Cass. 27 maggio 2000, n. 7020; Cass. 9 marzo 2004, n. 4797).
Secondo la Cassazione la Corte di merito si è attenuta ai suddetti principi ed ha escluso che ricorresse nel caso di specie il vincolo di dipendenza sul rilievo dell'inesistenza di un obbligo di rendersi disponibile per soddisfare le esigenze aziendali anche negli intervalli temporali tra una prestazione e l'altra qualificandosi le richieste della redazione come semplici proposte, cui la lavoratrice era libera di aderire o meno.
Il ricorso viene, pertanto, respinto.

Accordo sindacale e condizione meramente potestativa

Cass. Sez. Lav. 7 dicembre 2018, n. 31753.

Pres. Napoletano; Rel. Marotta; P.M. Mastroberardino; Ric. E.F.+27; Controric. P.I. S.r.l. e H.P.I. S.r.l.;

Accordo sindacale – Impegno datoriale a convertire a tempo indeterminato un numero minimo di dipendenti a termine – Condizione meramente potestativa – Esclusione.

La condizione meramente potestativa, che ai sensi dell'art. 1355 Cod. Civ. determina la nullità del negozio, è quella che dipende dal mero arbitrio del soggetto obbligato che ne tragga il vantaggio principale, così da presentarsi come effettiva negazione di ogni vincolo. Di conseguenza, essa deve escludersi quando l'evento dipenda anche dal concorso di fattori estrinseci che possono influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione sia rimessa all'esclusivo apprezzamento della parte obbligata.
NOTA
Un gruppo di dipendenti conveniva in giudizio, avanti al Tribunale di Ancona, il datore di lavoro (nonché la relativa cessionaria) al fine di sentir accertare l'inadempimento dell'impresa all'obbligazione, assunta con accordo sindacale, di attuare un piano industriale volto all'aumento della capacità produttiva e, conseguentemente, di procedere con nuove assunzioni.
Secondo l'interpretazione offerta dai ricorrenti, quale contropartita di tale obbligazione, le organizzazioni sindacali avevano accettato di sospendere, per un certo periodo, nei confronti dei nuovi assunti una serie di istituti retributivi (tra cui, il c.d. terzo elemento, il premio di produzione e, financo, la quattordicesima). Per tale ragione, i lavoratori chiedevano la condanna delle convenute al pagamento di tutti gli importi che non erano stati corrisposti durante il periodo di sospensione.
Il datore di lavoro e la cessionaria sostenevano invece che tale moratoria salariale fosse connessa, non già all'attuazione del piano industriale e all'impegno, meramente programmatico, di procedere con nuove assunzioni, bensì a quello di convertire a tempo indeterminato almeno il 90% dei lavoratori assunti a termine. Impegno che era stato puntualmente rispettato.
Il Tribunale di Ancona, con decisione confermata anche dalla Corte di appello, accoglieva l'interpretazione dell'accordo sindacale offerta dal datore di lavoro e, pertanto, rigettava integralmente le domande dei ricorrenti.
Avverso tale decisione i dipendenti ricorrevano in cassazione; le aziende resistevano con controricorso.
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso principale, ritenendo inammissibili e comunque infondati i relativi motivi.
I dipendenti, anzitutto, lamentavano violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 Cod. Civ. per aver la Corte territoriale privilegiato un'interpretazione esclusivamente letterale dell'accordo, senza verificare l'intero contesto contrattuale. Sul punto, la Suprema Corte si è limitata ad affermare che il sindacato di legittimità non può mai investire il risultato interpretativo in sé, trattandosi di un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza o illogicità della motivazione.
Con il secondo motivo veniva invece lamentata la violazione e falsa applicazione dell'artt. 1355 Cod. Civ. I ricorrenti, infatti, sostenevano che se l'unica condizione alla quale era sottoposta la moratoria salariale fosse stata quella della conversione a tempo indeterminato di una parte dei rapporti a termine (come accertato nella sentenza impugnata), quest'ultima avrebbe dovuto essere considerata invalida, in quanto condizione meramente potestativa.
La Corte di cassazione, da un lato, ha rilevato l'inammissibilità del motivo per assoluta novità della prospettazione (non essendoci nel ricorso alcuna indicazione di quando e in che termini tale questione sarebbe stata posta ai giudici di merito), dall'altro, ne ha comunque evidenziato l'infondatezza, richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di condizione meramente potestativa.
In particolare, è stato ribadito il principio di diritto (già espresso, tra le altre, da Cass. 728/2006 e Cass. 20290/2005) secondo cui non sussiste una condizione meramente potestativa quando l'obbligazione, assunta da una parte, non è rimessa al suo mero arbitrio, ma è collegata ad un gioco di interessi e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche il proprio interesse. La condizione potestativa invalidante il negozio, pertanto, è quella che dipendente dal mero arbitrio del soggetto obbligato che ne tragga il vantaggio principale, così da presentarsi, alla stregua di un mero «si voluero», come effettiva negazione di ogni vincolo.
Con riferimento al caso di specie, è stato ritenuto che l'impegno di convertire a tempo indeterminato una parte dei rapporti a termine non fosse rimesso al mero arbitrio del datore di lavoro, rappresentando piuttosto il risultato di una valutazione complessiva nel quadro dell'intesa con le organizzazioni sindacali, costituendo un'alternativa capace di soddisfare anche l'interesse aziendale.

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