Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Trasferimento di ramo d'azienda e contrattazione aziendale
Licenziamento del lavoratore disabile
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Trasferimento di ramo d'azienda e contrattazione aziendale

Cass. Sez. Lav. 15 marzo 2021, n. 7221

Pres. Raimondi; Rel. Patti; P.M. Celeste; Ric. F. S.p.a.; Controric. C. M.

Trasferimento d'azienda - Contrattazione integrativa aziendale del cessionario - Usi aziendali più favorevoli del cessionario - Prevalenza - Applicazione

Nell'ipotesi di trasferimento d'azienda, si applica la contrattazione integrativa aziendale del cessionario e non già del cedente: posto che il contratto integrativo aziendale, così come il diritto riconosciuto dall'uso aziendale (parificabile ad esso sul piano dell'efficacia nei rapporti individuali, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro, sostitutivo delle clausole contrattuali e collettive in vigore con quelle proprie più favorevoli, a norma dell'art. 2077, secondo comma c.c.), non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva conseguente al trasferimento di azienda (anche se quella applicata dall'impresa cessionaria sia più sfavorevole …); sicché, operando come una contrattazione integrativa aziendale, subisce la stessa sorte dei contratti collettivi applicati dal precedente datore di lavoro e non è più applicabile presso la società cessionaria dotata di una propria contrattazione integrativa.
NOTA
La Corte di appello di Torino rigettava l'appello proposto dalla società datrice di lavoro avvero la sentenza di primo grado che la condannava al pagamento in favore del lavoratore della somma di € 2.500,00 «pari al valore di acquisto dell'orologio d'oro Girard Perregaux corrisposto da dette società per il trentesimo anno di anzianità aziendale», oltre rivalutazione ed interessi, nonché all'accantonamento dell'ulteriore somma di € 1.272,75 ai fini del T.F.R., «per inclusione in esso di quanto corrispostogli per premio di anzianità, di compenso per festività cadenti la domenica, permessi individuali non fruiti e lavoro straordinario», oltre rivalutazioni di legge.
La Corte d'Appello riteneva che «la prassi aziendale (di consegna del suindicato orologio ai dipendenti al compimento del trentesimo anno di anzianità aziendale), in uso presso Fi. s.p.a. (nb: precedente datore di lavoro) e le società succedute nel rapporto di lavoro in questione, era stata mantenuta anche da Fe. s.p.a. (nb: successivo datore di lavoro)», e che il lavoratore avesse maturato il diritto al valore economico del «premio orologio», avendo compiuto il trentesimo anno di anzianità il 18 settembre 2004, alle dipendenze della datrice, cessionaria del suo contratto di lavoro dal 1° ottobre 1997.
Secondo la Corte territoriale la suddetta prassi aziendale «in quanto fonte eteronoma del contratto individuale (e non sua clausola integrativa eventualmente più favorevole), qualora sia prevista dal cedente ma non dal cessionario, non si conservi nel trasferimento d'azienda, per la sostituzione della contrattazione collettiva nazionale e aziendale applicata dal secondo anche se più sfavorevole, tuttavia era stata riconosciuta anche da F. s.p.a. con l'accordo integrativo aziendale del 5 giugno 2008», e tale circostanza aveva stabilito «l'assorbimento di qualsiasi trattamento o uso analogo applicato presso la società, con particolare riguardo a quanto previsto in materia di "orologio, premio di anzianità e fedeltà", per l'istituzione, con decorrenza dal 1° luglio 2008, di un "Premio Esperienza" di anzianità aziendale migliorativo: pertanto con valore ricognitivo della prassi vigente e disponendo (solo) per il futuro».
La società datrice, quindi, impugnava la sentenza di secondo grado.
La Corte di Cassazione rigettava il ricorso della società, motivando come nella massima sopra riportata, precisando che «deve pure essere tenuto fermo il principio generale, secondo cui il contrasto fra contratti collettivi, come è anche il contratto aziendale, di diverso livello e ambito territoriale vada risolto non in base a principi di gerarchia e di specialità proprie delle fonti legislative, ma sulla base della effettiva volontà delle parti operanti in area più vicina agli interessi disciplinati, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione collettiva, aventi tutte pari dignità e forza vincolante; sicché anche i contratti territoriali possono, in virtù del principio dell'autonomia negoziale di cui all'art. 1322 c.c., prorogare l'efficacia dei contratti nazionali e derogarli, anche in pejus senza che osti il disposto dell'art. 2077 c.c., fatta salva solamente la salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori, che non possono ricevere un trattamento deteriore in ragione della posteriore normativa di eguale o diverso livello (Cass. 19 aprile 2006, n. 9052; Cass. 18 maggio 2010, n. 12098; Cass. 1° luglio 2016, n. 13525; con applicazione anche al rapporto di pubblico impiego privatizzato: Cass. 9 luglio 2018, n. 17966)».
In sostanza il lavoratore ha maturato il diritto al premio di anzianità e fedeltà in un momento anteriore alla decorrenza dell'accordo integrativo aziendale che, peraltro, era stato qualificato dalla Corte territoriale come ricognitivo di una prassi aziendale esistente anche presso la società cessionaria.

Licenziamento del lavoratore disabile

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2021, n. 6497

Pres. Arienzo; Rel. Amendola; Ric. A.A.; Controric. G.V.

Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta - Lavoratore disabile - Obbligo del datore di accomodamenti adeguati e ragionevoli - Obbligo di repêchage "ordinario" - Distinzione - Necessità - Onere della prova a carico del datore

In tema di impugnativa del licenziamento del lavoratore disabile o portatore di handicap per inidoneità fisica - come in ogni ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo - grava sul datore di lavoro l'obbligo di repêchage, nonché, in applicazione dell'art. 3, co. 3 bis, d. lgs. 216 del 2003, l'ulteriore onere dell'adempimento, in senso positivo, dell'obbligo di accomodamento ragionevole, pure esso inteso come condizione di legittimità del recesso.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano ha confermato la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione e, in parziale riforma di essa dal punto di vista della tutela applicabile, ha condannato la società a reintegrare il lavoratore nonché a corrispondergli, a titolo di risarcimento, le retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione. La Corte, premessa l'applicabilità dell'art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, ha ritenuto sussistere, in capo al datore di lavoro, un «obbligo generale di adottare tutte quelle misure – "accomodamenti ragionevoli" - atte ad evitare il licenziamento, anche quando queste incidano sull'organizzazione dell'azienda», salvo il limite dell'eventuale sproporzione degli oneri a carico dell'impresa.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società lamentando un eccessivo onere della prova in capo al datore di lavoro che oltre a dover dimostrare l'obbligo di repêchage, avrebbe anche un onere della prova positivo relativo all'obbligo di adottare gli accomodamenti ragionevoli atti a evitare il licenziamento del lavoratore divenuto inidoneo, nulla importando l'impatto che la modificazione delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa avrebbe sui colleghi dell'invalido.
La Corte di legittimità dopo aver ripercorso la normativa applicabile al caso di specie ha ribadito che l'impossibilità di ricollocare il disabile, adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda licenziarlo, perché dovrà comunque ricercare possibili "accomodamenti ragionevoli" che consentano il mantenimento del posto di lavoro, in una ottica di ottimizzazione delle tutele, giustificata dall'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), tanto più pregnanti in caso di sostegno a chi versa in condizioni di svantaggio. La Corte ha sottolineato che in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità del lavoratore, «non è certo sufficiente per il datore semplicemente allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, come si trattasse di un ordinario repêchage, così creando una sovrapposizione con la dimostrazione, comunque richiesta, circa l'impossibilità di adibire il disabile a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute. Né spetta al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro, sovvertendo l'onere probatorio e richiedendo una collaborazione nella individuazione degli accomodamenti possibili non prevista neanche per il repêchage ordinario in mansioni inferiori, oramai esteso dal recesso per sopravvenuta inidoneità fisica alle ipotesi di soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale».
Alla stregua di tali considerazioni i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso rilevando che, «ai fini dell'adempimento dell'obbligo previsto dall'art. 3, co. 3 bis, d. lgs. n. 216 del 2003, non era sufficiente per la società allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, né tanto meno era sufficiente trincerarsi dietro la mera affermazione che di accomodamenti praticabili non ve ne fossero, lamentando che il lavoratore non ne aveva individuati».

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 15 marzo 2021, n. 7223

Pres. Raimondi; Rel. Lorito; P.M. Celeste; Ric. L.G.; Controric. S. S.p.A.

Licenziamento per giusta causa - Fattispecie: abbandono del posto di lavoro della guardia giurata - Profilo oggettivo: totale distacco dal bene da proteggere - Durata - Irrilevanza - Profilo soggettivo: coscienza e volontà di abbandono - Necessità - Legittimità del recesso

L'abbandono del posto di lavoro da parte di una guardia giurata presenta una duplice connotazione oggettiva e soggettiva. Sotto il profilo oggettivo rileva l'intensità dell'inadempimento agli obblighi di sorveglianza, dovendosi l'abbandono identificare nel totale distacco dal bene da proteggere, mentre la durata nel tempo della condotta contestata va apprezzata non già in senso assoluto, ma in relazione alla sua possibilità di incedere sulle esigenze di servizio, dovendosi comunque escludere che l'abbandono richieda una durata protratta per l'intero orario residuo del turno di servizio svolto. Sotto il profilo soggettivo, è richiesta la semplice coscienza e volontà della condotta di abbandono, indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo dell'allontanamento.
NOTA
Un addetto alla vigilanza veniva licenziato per giusta causa dal datore di lavoro per aver abbandonato il posto di lavoro per venti minuti in ragione della necessità di rimuovere la propria auto dal luogo ove era parcheggiata ed altresì per aver violato, nella medesima circostanza, l'obbligo di indossare il giubbotto antiproiettile.
Sia in primo che in secondo grado il licenziamento veniva ritenuto legittimo: nel caso di specie, risultavano sussistere entrambi i presupposti (oggettivo e soggettivo) tipici della fattispecie dell'abbandono del posto di lavoro, come tipizzata dalle parti sociali tra le cause di recesso per giusta causa ex art. 140 CCNL Istituti di vigilanza privata. E, infatti, il vigilante, da un lato, si era totalmente distaccato dal bene da proteggere (integrando per ciò il cd. requisito oggettivo dell'abbandono) ed aveva altresì dimostrato piena coscienza e volontà di voler realizzare la condotta incriminata, posto che l'abbandono era avvenuto senza alcun avviso alla centrale operativa e per futili motivi (così integrando anche il cd. requisito soggettivo).
Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione con un unico motivo di ricorso con il quale ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli articoli 2106 e 2119 c.c.
Secondo la tesi del lavoratore si era verificata una ipotesi di «allontanamento momentaneo dal posto di lavoro», poiché egli non aveva inteso sottrarsi ai propri obblighi, «ma solo sospendere brevemente la sua prestazione onde soddisfare esigenze di natura meramente personale». La condotta posta in essere difetterebbe, quindi, del requisito della «definitività», sicché la Corte territoriale avrebbe errato nel qualificare tale condotta in termini di "abbandono del posto di lavoro". Parimenti, i giudici del gravame non avrebbero tenuto conto dell'elemento geografico (distanza del parcheggio dalla postazione di lavoro di soli 100 metri), né dell'elemento quantitativo, connesso alla temporaneità dello spostamento dal luogo di lavoro.
Il suddetto motivo di ricorso è stato ritenuto infondato.
Ad avviso della Suprema Corte, la Corte di Appello aveva fatto corretta applicazione dei principi già espressi in sede di legittimità in tema di abbandono del posto di lavoro, come nella fattispecie tipizzata dall'art. 140 del CCNL Istituti di vigilanza privata (si vedano, Cass. n. 13410 del 1/7/2020 e Cass. n. 15441 del 26/7/2016).
Per ciò che riguarda la durata nel tempo della condotta contestata, essa deve essere apprezzata (ed eventualmente può costituire scriminante per il lavoratore) non già in senso assoluto, ma in relazione alla sua possibilità di incidere sulle esigenze del servizio, dovendosi invece escludere che l'abbandono richieda una durata protratta per l'intero orario residuo del turno di servizio svolto. Sotto il profilo soggettivo, poi, l'abbandono richiede un elemento volontaristico consistente nella «semplice coscienza e volontà della condotta di abbandono, indipendentemente dalle finalità perseguite, e salva la configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo dell'allontanamento». Si tratta di elementi, quello oggettivo e soggettivo, che, nel caso di specie, sono stati correttamente valutati come sussistenti dalla Corte territoriale. Infatti, è risultato provato il carattere volontario dell'allontanamento del dipendente senza previa autorizzazione della centrale, l'idoneità dello stesso a pregiudicare l'effettività della tutela del bene da proteggere e la sostanziale irrilevanza della durata dell'allontanamento. La sanzione risultava inoltre proporzionata, atteso «il giudizio di gravità del vulnus arrecato all'elemento fiduciario sotteso al vincolo lavorativo», senza considerare che, nella stessa occasione, il vigilante non indossava il giubbotto antiproiettile, in violazione dell'art. 2104 c.c. e del contratto collettivo di settore.
Il ricorso è stato pertanto respinto.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 4 marzo 2021, n. 6086

Pres. Tria; Rel. Bellé; Ric. G. A.M. Controric. C.B.I.C.; P.M. Visonà

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Adibizione al reparto soppresso - Illegittimità - Comparazione con lavoratori fungibili - Necessità

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.
NOTA
Una società avviava un procedimento per licenziamento collettivo, individuando nell'ambito del suo organico di 45 unità, un'eccedenza di 12 unità, di cui 8 con profilo di operaio, 2 con profilo di addetto paghe, 1 con profilo di addetto protocollo e 1 con profilo di addetto segretaria e protocollo.
Svolte le necessarie fasi procedimentali, nella comunicazione finale di cui all'art. 4, comma 9 (applicabile per il rinvio della L. n. 223 del 1991, art. 24, comma 1) la società dichiarava che per la scelta dei lavoratori da licenziare si sarebbero applicati i criteri legali in combinazione tra loro e cioè anzianità di servizio (con punteggio di 0,001 per ogni anno di servizio), carichi di famiglia (con punteggio di 0,5 per ogni familiare a carico) ed esigenze tecnico-organizzative-produttive (queste ultime individuate suddividendo l'intera platea dei lavoratori in 9 categorie a seconda delle mansioni svolte ed assegnando punteggio pari a zero ai lavoratori che svolgevano mansioni di addetto al protocollo o genericamente di segreteria o manutenzione impianti, ossia delle mansioni oggetto di soppressione, ed un punteggio di 10, 20, 25 alle categorie di lavoratori adibiti a mansioni ritenute indispensabili per il prosieguo dell'attività, quali addetti all'elaborazione paghe, capi operai, tecnici del catasto, uscieri o autisti) ed infine un punteggio di 35 punti ai lavoratori con funzioni di coordinamento o capi settori.
In virtù dell'applicazione di questi criteri e dei relativi punteggi la lavoratrice G.A.M. veniva licenziata.
Impugnato il licenziamento per violazione procedurale e dei criteri di scelta, la lavoratrice vedeva la sua domanda dapprima accolta dal Tribunale di Catanzaro e successivamente respinta, invece, in sede di gravame. La Corte di appello di Catanzaro, in particolare, riteneva il licenziamento del tutto legittimo, sia dal punto di vista procedurale (in quanto la comunicazione iniziale inviata dalla società era evidentemente completa e specifica) sia dal punto di vista dei criteri di scelta (in quanto la decisione di far leva, per la scelta del personale da licenziare, sul criterio delle esigenze tecnico-organizzative, valorizzando le mansioni attualmente svolte da ciascun dipendente e attribuendo in base ad esse i punteggi per la valutazione comparativa, appariva del tutto ragionevole e coerente). Ancor più specificamente, secondo la Corte del gravame, l'individuazione dei lavoratori da licenziare guardando alle mansioni ricoperte al momento della procedura era giustificata dalla necessità, del tutto coerente e evidenziata fin dall'apertura della procedura, di sopprimere le posizioni lavorative in eccedenza e di eliminare la sovrapposizione e duplicazione di ruoli.
Avverso questa decisione la lavoratrice ricorreva per Cassazione proponendo, per quel che qui rileva, un'unica censura di violazione e/o falsa applicazione dell'art. 5, co. 1, della l. 223/1991.
Secondo la ricorrente, infatti, i criteri adottati dalla società per procedere con il licenziamento collettivo, lungi dall'essere il frutto di una scelta ragionevole e incensurabile, esprimevano piuttosto una scelta iniziale di licenziare determinati lavoratori a prescindere dall'applicazione di criteri di scelta.
E, infatti, attribuendo i punteggi sulla base delle mansioni "svolte" e non della professionalità, quale manifestata anche presso la società, il datore di lavoro avrebbe omesso di fare applicazione di parametri obiettivi di raffronto tra tutto il personale potenzialmente coinvolto, sostanzialmente operando in modo da prescegliere a priori chi licenziare, così violando l'art. 5, comma 1 L. n. 223/1991.
Con la sentenza in epigrafe la S.C. ritiene il motivo fondato. In particolare, secondo la S.C., attribuendo i punteggi per la scelta sulla base delle mansioni svolte in quel momento da ciascun addetto, la società non aveva rispettato la regola procedurale secondo cui "in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda (...) il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative". La procedura di scelta del licenziamento collettivo deve essere infatti ispirata all'applicazione di parametri oggettivi, al fine di assicurare che la decisione non sia operata sulla base del mero arbitrio del datore di lavoro. Di conseguenza, al fine di una corretta applicazione dei criteri di scelta, non è possibile limitarsi ad apprezzare solo le mansioni in concreto svolte in quel momento dal singolo lavoratore, ma occorre indagare altresì la capacità professionale di chi sia addetto ai settori da sopprimere, mettendo quindi in comparazione tutti coloro che siano in grado di svolgere, per cognizioni generali e concreta competenza, le mansioni proprie di settori che sopravvivono, a prescindere dal fatto che in concreto, al momento del licenziamento collettivo non le esercitino.
Nel caso di specie, essendo stato destinato punteggio "zero" a chi operava in settori da sopprimere ed un punteggio infimo per ogni anno di anzianità (0,001), con viceversa punteggi progressivamente e grandemente maggiori (da 10 fino a 35) per chi esercitava le mansioni in settori non soppressi, è palese, per i Giudici di legittimità, la totale mancata considerazione, al livello di impostazione dei criteri che inevitabilmente governa la fattispecie, della professionalità degli impiegati degli altri settori. In definitiva, l'effetto dei criteri adottati è stato quello per cui veniva licenziato chi era addetto alle mansioni impiegatizie nei settori soppressi e veniva invece salvaguardato chi lavorava nei settori che proseguivano, ma non è questa, secondo la S.C. la logica del licenziamento collettivo, salvo in caso di competenze professionali infungibili, sulle quali però la Corte di merito non ha svolto alcun accertamento.
Sulla base di quanto finora argomentato la S.C. accoglie la denuncia di violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1 e cassa la sentenza con rinvio alla stessa Corte d'Appello affinché svolga gli accertamenti eventualmente necessari in relazione al motivo accolto, decidendo in conformità ai principi sin qui affermati.

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