Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Il superminimo è assorbibile fino a prova contraria
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Trasferimento d'azienda e accertata dequalificazione presso la cedente
Sulla liceità di un contratto di appalto
Cambio turno con limitato preavviso


Il superminimo è assorbibile fino a prova contraria

Cass. Sez. Lav. ord. 21 aprile 2021, n. 10561

Pres. Negri; Rel. Amendola; Ric. P.S. S.p.A. e S.C. S.p.A.; Controric. S. M. + 4

Superminimo - Assorbibilità - Volontà delle parti - Rilevanza - Accertamento di merito - Insindacabilità in Cassazione - Sussiste

Il superminimo, ossia l'eccedenza retributiva rispetto ai minimi tabellari, individualmente pattuito tra datore di lavoro e lavoratore, è soggetto al principio dell'assorbimento, nel senso che, in caso di riconoscimento del diritto del lavoratore a superiore qualifica, l'emolumento è assorbito dai miglioramenti retributivi previsti per la qualifica superiore, a meno che le parti abbiano convenuto diversamente o la contrattazione collettiva abbia altrimenti disposto, restando a carico del lavoratore l'onere di provare la sussistenza del titolo che autorizza il mantenimento del superminimo, escludendone l'assorbimento. In tal senso, ai fini della ricostruzione della volontà negoziale deve essere valutato il comportamento delle parti anche successivo alla conclusione del patto.
Rapporti di durata e obbligazioni - Accertamento giudiziale su fatti che possono avere effetti anche in futuro - Autorità di giudicato - Riesame - Esclusione
In ordine ai rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche che eventualmente ne costituiscano il contenuto, sui quali il giudice pronuncia su una fattispecie attuale ma con conseguenze destinate ad esplicarsi anche in futuro, l'autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo (salvo mutamenti del rapporto conseguenti a sopravvenienze di fatto o di diritto), atteso che gli effetti del giudicato sostanziale si estendono, finanche in caso di rigetto della domanda, a tutte quelle statuizioni inerenti all'esistenza e validità del rapporto dedotto in giudizio necessarie ed indispensabili per giungere a quella pronuncia.
NOTA
L'ordinanza in commento trae origine da una pronuncia della Corte di Appello di Bologna che, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato le società coinvolte nella vicenda al pagamento, in favore dei lavoratori, di differenze retributive a titolo di superminimo non assorbibile. Infatti, il superminimo è un elemento accessorio ed eventuale della retribuzione che può essere pattuito ed inserito nel contratto individuale di lavoro, o essere stabilito a livello collettivo, nell'ambito della contrattazione aziendale, e il cui importo si aggiunge al minimo contrattuale spettante al lavoratore. La cosiddetta assorbibilità, poi, del superminimo indica la possibilità che il superminimo resti assorbito nell'aumento della retribuzione del lavoratore (derivante ad esempio dal rinnovo del contratto collettivo oppure del passaggio di livello del lavoratore).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente una prassi aziendale quale titolo autorizzativo idoneo ad escludere l'assorbimento del superminimo. Avverso tale sentenza, hanno proposto distinti ricorsi, poi riuniti, sia le società che i lavoratori.
La Suprema Corte, per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica, esamina dapprima i motivi di ricorso delle società. Per quel che qui interessa, le società hanno lamentato la mancata disamina da parte della Corte bolognese di alcune circostanze che avrebbero deposto nel senso di una volontà delle parti di sottrarre il superminimo all'assorbimento (tra cui l'esistenza una clausola integrativa dell'accordo aziendale considerato per la causa e il fatto che il mancato assorbimento del superminimo in occasione dei passaggi di livello avesse riguardato solo tre dipendenti). La Corte richiama innanzitutto il principio per cui il superminimo è soggetto al principio dell'assorbimento ed è a carico del lavoratore l'onere di provare la sussistenza del titolo che ne autorizza il mantenimento, escludendone l'assorbimento, e chiarisce che, in tal senso, ai fini della ricostruzione della volontà negoziale deve essere valutato il comportamento delle parti anche successivo alla conclusione del patto. La Corte aggiunge altresì che, poi, che «l'accertamento della volontà è indagine riservata al giudice del merito, in ossequio al generale principio per cui ogni interpretazione di atti negoziali è riservata all'esclusiva competenza del giudice che ne ha il dominio (cfr. Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), con una operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto, soggetto quindi, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente». I giudici di legittimità, dunque, rigettano i motivi delle società poiché tendenti ad una inammissibile rivalutazione dell'accertamento fattuale correttamente effettuato dalla Corte d'Appello di Bologna.
Con riferimento, poi, ai motivi di ricorso dei lavoratori, questi ultimi hanno lamentato omessa pronuncia da parte della Corte territoriale in merito alla domanda di accertamento con efficacia di giudicato della natura non riassorbibile dei superminimi individuali loro riconosciuti, In particolare, i lavoratori deducono di aver proposto due distinte domande:
di accertamento della natura non assorbibile del superminimo e di condanna delle società alle differenze retributive. Nella prospettazione dei lavoratori, la Corte di Bologna si sarebbe pronunciata esclusivamente su questa seconda domanda, ignorando la prima che era invece finalizzata ad impedire la prosecuzione anche in futuro dell'illegittimo comportamento datoriale.
Orbene, la Suprema Corte rigetta anche tale motivo affermando che «per principio radicato nella giurisprudenza di questa Corte l'interpretazione della domanda giudiziale e dei suoi confini è riservata al giudice del merito, per cui, nella specie, la Corte di Appello, accogliendo l'appello dei lavoratori, ha pronunciato sulle domande da costoro proposte con la condanna delle società al pagamento delle somme dovute, chiaramente sul presupposto che il superminimo in controversia non fosse assorbibile» e che la Corte territoriale «ha evidentemente ritenuto la richiesta di accertamento contenuta nelle conclusioni dell'atto introduttivo come strumentale rispetto alla successiva condanna».
I giudici di legittimità si soffermano altresì sull'efficacia della sentenza in relazione alla possibile reiterazione, in futuro, da parte delle società dell'illegittima condotta oggetto di causa e ribadiscono il principio di cui alla massima.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 26 aprile 2021, n. 10992

Pres. Berrino; Rel. Patti; P.M. Mastroberardino; Ric. A.G.B. S.p.A.; Contr. C.G.

Licenziamento collettivo - Applicazione criteri di scelta - Professionalità fungibili - Comparazione - Necessità

È illegittimo per violazione dei criteri di scelta il licenziamento collettivo dell'operaio precedentemente addetto in via esclusiva ad un determinato reparto, se tali mansioni siano state successivamente assegnate ad altri lavoratori nel periodo in cui il medesimo operaio era assente perché licenziato per motivi disciplinari. Tali circostanze confermano infatti la fungibilità delle mansioni assegnate all'operaio che, in quanto tali, rendono necessaria l'applicazione dei criteri di scelta legali o concordati con le organizzazioni sindacali.
Licenziamento collettivo - Vizi della comunicazione finale - Tutela indennitaria - Violazione dei criteri di scelta - Tutela reintegratoria attenuata
In tema di vizi del licenziamento collettivo devono distinguersi due ipotesi: la non corrispondenza della comunicazione finale al modello legale, che costituisce una violazione procedurale con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del dipendente, e la violazione dei criteri di scelta, che comporta l'annullamento del licenziamento con condanna alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore a dodici mensilità.
NOTA
La Corte d'appello di Salerno, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato ad un operaio all'esito di una procedura di riduzione del personale, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria e condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria, soggetta a contribuzione, pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del dipendente. In particolare, la Corte ravvisava una violazione dei criteri di scelta, poiché il datore di lavoro non aveva adeguatamente giustificato la scelta di licenziare l'operaio, in precedenza unico addetto al reparto piegatura, nel quale erano stati successivamente impiegati altri dipendenti della società nel periodo in cui il medesimo operaio era assente perché licenziato per motivi disciplinari.
La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo, inter alia, la nullità della sentenza in ragione della mancata indicazione degli elementi dai quali la Corte d'Appello avrebbe dedotto la fungibilità tra le mansioni svolte dall'operaio e quelle svolte dagli altri lavoratori successivamente addetti al reparto.
La Suprema Corte ritiene il motivo infondato, avendo il giudice di merito adeguatamente argomentato il proprio convincimento circa la fungibilità tra i diversi lavoratori sulla base della circostanza che il reparto di piegatura – al quale l'operaio licenziato era l'unico addetto prima di essere licenziato per motivi disciplinari – sia successivamente stato mantenuto in funzione mediante l'adibizione di altri lavoratori della società.
Quanto al regime sanzionatorio applicato a seguito dell'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, la Corte di cassazione ribadisce il proprio consolidato orientamento e chiarisce le diverse conseguenze applicabili, da una parte, in caso di non corrispondenza della comunicazione di chiusura della procedura al modello legale e, dall'altra, in caso di inosservanza dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge oppure perché applicati in difformità alle previsioni legali o collettive. Nel primo caso, trattandosi di una violazione procedurale, si applica la tutela indennitaria, con conseguente cessazione del rapporto alla data del licenziamento e condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria, non soggetta a contribuzione, quantificabile tra dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del dipendente (in senso conforme, Cass., 13 giugno 2016, n. 12095); nel secondo caso, invece, si applica la tutela reintegratoria attenuata, con conseguente reintegrazione del lavoratore e condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria, soggetta a contribuzione, in misura non superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del dipendente (in senso conforme, Cass., 2 febbraio 2018, n. 2587).

Trasferimento d'azienda e accertata dequalificazione presso la cedente

Cass. Sez. Lav. 23 aprile 2021 n. 10867

Pres. Raimondi; Rel. Leo; P.M. Celeste; Ric. A.S.; Controric. C.F. S.r.l.

Trasferimento d'azienda - Rientro dalla maternità - Rifiuto di svolgere le mansioni presso la cessionaria - Licenziamento - Giusta causa - Legittimità - Accertata dequalificazione presso la cedente – Irrilevanza

È legittimo il licenziamento per giusta causa della lavoratrice che, dopo un lungo periodo di assenza (per maternità, malattia e ferie), si rifiuta di svolgere le mansioni (nella specie Area Manager per il Centro-Sud Italia) assegnate dalla cessionaria, sull'assunto che siano le medesime di quelle svolte presso la cedente accertate come demansionanti in altro giudizio. Se l'avvenuta cessione di azienda non esime, infatti, dalla responsabilità solidale patrimoniale, nei confronti della dipendente, la società cessionaria, quest'ultima non può, però, essere ritenuta responsabile di comportamenti vessatori posti in essere dalla cedente ed in ordine alla asserita reiterazione dei quali da parte della cessionaria, la dipendente non abbia fornito alcuna prova, limitandosi a non eseguire alcuna prestazione.
NOTA
La Corte di Appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale, rigettava la domanda proposta dalla lavoratrice A.S. nei confronti della società C.F. S.r.l., avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole dalla società datrice.
La dipendente, nella fattispecie, rientrata a lavoro dopo un'assenza di due anni (per maternità, malattia e ferie) si rifiutava di svolgere le mansioni affidate dalla società cessionaria d'azienda, sul presupposto che fossero le medesime svolte precedentemente presso la cedente ed accertate come dequalificanti in altro precedente giudizio.
La Corte d'Appello confermava la legittimità del licenziamento per giusta causa in considerazione del pacifico, e non contestato, rifiuto della lavoratrice di svolgere le mansioni affidate nonostante le (documentate) lettere di richiamo del datore di lavoro cessionario d'azienda, e ritenendo priva di rilievo la sentenza che aveva accertato il demansionamento, perché resa nei confronti del precedente datore di lavoro e riferibile a comportamenti posti in essere da quest'ultimo anteriormente alla cessione dell'azienda e all'intervallo determinatosi nel rapporto per effetto dell'assenza della lavoratrice.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione la lavoratrice lamentando, per un motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 1375 c.c., assumendo che la Corte d'Appello avesse errato nel ritenere che la ricorrente non avesse titolo per opporre alla datrice un'eccezione di inadempimento e non avrebbe considerato che il rifiuto a svolgere la prestazione lavorativa era stato opposto in ragione del danno alla salute e alla professionalità per aver continuato la società datrice ad assegnare mansioni già ritenute dequalificanti. Per altro motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., per carenza di proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione adottata, e ritenuta mancanza di motivazione della sentenza sul punto.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
La Corte di Cassazione, stabilisce, innanzitutto, che la censura relativa al rifiuto di adempiere a fronte di una prestazione lesiva del diritto alla salute della lavoratrice, deve considerarsi una circostanza nuova, non solo perché la ricorrente non specifica se sia stata prospettata nei gradi di merito, ma anche in considerazione del fatto che la ricorrente omette di spiegare in che modo i comportamenti vessatori subiti dal precedente datore di lavoro (cedente dell'azienda) possano essere addebitati all'attuale parte datrice (cessionaria), presso la quale, infatti, la lavoratrice «non ha espletato alcuna mansione», stante l'assenza ed il successivo rifiuto di rendere la prestazione lavorativa. Quindi, ritiene la Corte di Cassazione, è comunque fatto «indimostrato» che le mansioni affidate dal datore di lavoro cessionario fossero dequalificanti, in quanto mai svolte dalla lavoratrice. La cessionaria, stabilisce infatti la Suprema Corte, non può essere ritenuta responsabile dei comportamenti vessatori posti in essere dalla cedente nei confronti della lavoratrice, né possono in ogni caso ritenersi reiterati tali comportamenti da parte della cessionaria in assenza di prestazione lavorativa in suo favore.
Quanto, infine, alla lamentata carenza di proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione adottata, la Corte di Cassazione ribadisce l'orientamento (precedentemente espresso da Cass. n. 5707 del 2017, Cass. n. 23862 del 2016 e Cass. n. 13149 del 2016) secondo cui «laddove venga denunciato un vizio di violazione dell'art. 2119 c.c. e si proponga un diverso apprezzamento della gravità dei fatti e della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo della giusta causa, tale apprezzamento, che, ponendosi sul piano del giudizio di fatto, è demandato al giudice del merito, è sindacabile in Cassazione solo a condizione che la contestazione contenga una specifica pronunzia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale», condizione, nel caso di specie, ritenuta non rispettata dalla Suprema Corte, poiché, sul punto, la ricorrente si è limitata a dolersi di una motivazione "carente".

Sulla liceità di un contratto di appalto

Cass. Sez. Lav. 6 aprile 2021, n. 9231

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; Ric. F. S.p.A.; Controric. B.P.

Appalto endoaziendale - Esercizio da parte del committente del potere direttivo e disciplinare - Interposizione illecita di manodopera - Sussistenza - Fattispecie: dipendente di cooperativa che esegue servizi di pulizia e manutenzione presso hotel

Ai sensi dell'art. 29 del D.Lgs. n. 276 del 2003 l'appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della "organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore", costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza che l'appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell'appaltatore ed è ravvisabile, di contro, una interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi in capo a quest'ultimo l'intuitus personae nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione illegale, è frequente che l'elemento fiduciario caratterizzi l'intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro.
NOTA
Un dipendente di una cooperativa riteneva di essere stato eterodiretto dalla struttura alberghiera presso la quale svolgeva le proprie mansioni di addetto a prestazioni di portineria, reception, pulizia ambienti e piccola manutenzione in virtù di un contratto di appalto tra la struttura alberghiera, committente, e la cooperativa, appaltatrice, formale datrice di lavoro. Il dipendente della cooperativa adiva, quindi, il Tribunale di Lecce che, a seguito di un'istruttoria, rigettava il ricorso. In riforma della sentenza del Tribunale, si pronunciava la Corte di appello di Lecce che, ritenendo che il ricorrente fosse stato oggetto di una intermediazione vietata di manodopera, accertava con sentenza non definitiva che tra il ricorrente e la struttura alberghiera era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 7 ottobre 2004 al 31 marzo 2009 e condannava quest'ultima ad iscrivere il ricorrente nei propri libri paga e matricola dal 7 ottobre 2004 in poi e a riammetterlo in servizio per lo svolgimento di attività confacenti il livello di inquadramento assegnato dalla Corte di appello, nonché, con un'altra sentenza, condannava la committente a corrispondere un importo a titolo di differenze retributive.
La committente impugnava quindi davanti alla Corte di Cassazione entrambe le sentenze della Corte di appello in base ad un unico motivo di gravame: la violazione e falsa applicazione degli artt. 20 e 29 del D.Lgs. n. 276/2003 e di ogni altra norma e principio in materia di appalto fraudolento. A sostegno delle proprie difese, la committente affermava che «erroneamente la Corte di appello di Lecce aveva incentrato la propria indagine, onde verificare la genuinità della prestazione oggetto di appalto, sull'appaltatore e non sul committente allo scopo di accertare se questi avesse esercitato i propri poteri disciplinari e direttivi, determinando – in caso contrario – una sostanziale inversione dell'onere della prova».
La Corte di Cassazione afferma che la corte territoriale aveva correttamente accertato durante l'approfondita istruttoria che «il ricorrente senza informare l'appaltatrice e senza essere sottoposto ad alcun controllo da parte di questa, eseguiva interventi di piccola manutenzione sempre su disposizione dei dipendenti della committente con i quali si scambiava altresì di turno e da cui veniva anche rimproverato e sottoposto a reclami gerarchici in caso di non perfetta esecuzione della prestazione di pulizia dei locali che costituiva, peraltro l'obbligo specifico dell'attività appaltata» e che quindi il ricorrente era «una monade sganciata dal contesto di appartenenza lavorativa, sottratta ad ogni controllo di efficienza e da ogni iniziativa disciplinare da parte della Cooperativa, che aveva praticamente abdicato ogni controllo sul lavoratore in favore dei dipendenti della committente». Pertanto, a fronte di tale accertamento di fatto ed alla luce del costante orientamento giurisprudenziale come da massima sopra riportata, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso della committente.

Cambio turno con limitato preavviso

Cass. Sez. Lav. 23 aprile 2021, n. 10868

Pres. Raimondi; Rel. Leo; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.G.; Contr. X S.p.A.

Lavoro su turni - Comunicazione turno - Poco preavviso - Legittimità - Condizione - Maggior riposo

È legittima la condotta della società che comunica il cambio turno al dipendente poche ore prima (nella specie 6 ore) se poi compensi il disagio procurato dall'orario minimo di preavviso del servizio, riconoscendogli la fruizione di un maggior riposo, in linea con quanto previsto dal CCNL applicabile.
Danno non patrimoniale - Danno biologico - Risarcimento - Danno in re ipsa - Insussistenza - Nesso causale - Onere della prova
È onere del lavoratore che lamenti di aver subìto un danno biologico e/o non patrimoniale, provare l'esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subìto, nonché il relativo nesso causale con l'inadempimento del datore, non potendosi prospettare automaticamente l'esistenza di un danno in tutti i casi di inadempimento datoriale.
NOTA
La Corte d'Appello di Venezia riformava la sentenza resa dal Tribunale di Venezia che aveva ritenuto illegittima la condotta della società datrice di lavoro nei confronti di un dipendente poiché, nell'ambito del sistema organizzativo dei turni di servizio adottato dall'azienda, nel quale tale dipendente era inserito, comunicava a quest'ultimo l'orario della presa di servizio con un preavviso di sole sei ore.
In particolare, il giudice di prime cure aveva ritenuto che la condotta datoriale, oltre ad essere lesiva dei diritti costituzionalmente garantiti alla vita sociale e familiare, si poneva, altresì, in aperto contrasto con i principi di correttezza e buona fede, in ragione dell'impossibilità per il dipendente di organizzare la propria vita al di fuori del rapporto di lavoro, conseguentemente, aveva dichiarato il diritto del dipendente ad ottenere il ristoro dei danni non patrimoniali subiti.
In riforma della sentenza di primo grado, la Corte territoriale rilevava che il Tribunale di Venezia, nell'analisi del sistema aziendale organizzativo dei turni di lavoro, aveva errato nel tener conto del solo orario minimo di preavviso del servizio, non soffermandosi sul fatto che tale scarso preavviso era compensato con la fruizione, da parte del dipendente, di riposi maggiori rispetto a quelli del personale sostituito, così come previsto dal contratto collettivo applicato.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto tre distinti profili.
In particolare con il primo ed il secondo motivo, il dipendente ha eccepito l'errore della Corte territoriale nell'aver escluso l'illegittimità della condotta datoriale e nel non aver fornito una motivazione specifica circa l'insussistenza dell'asserita violazione da parte dell'azienda, delle norme della contrattazione collettiva e, in generale, dei principi di correttezza e buona fede.
Con riferimento al terzo motivo di ricorso, il dipendente ha ritenuto che la Corte territoriale abbia errato nel considerare necessaria la specifica indicazione del danno subìto e del pregiudizio provocato, con conseguente reiezione del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale.
La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ritiene infondato il ricorso proposto dal dipendente.
In primo luogo, ancor prima di valutare nel merito la legittimità delle domande proposte, la Suprema corte dichiara inammissibili i primi due motivi di ricorso per avere, parte ricorrente, omesso di produrre il contratto collettivo che il dipendente intendeva censurare, non potendosi effettuare un mero rinvio a fonti esterne al giudizio, nonché per il fatto che, nella sostanza, il ricorso proponeva una nuova valutazione del merito della pronuncia resa dalla Corte d'Appello, non rientrando tra i compiti del giudice di legittimità riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa.
In secondo luogo, nel merito della controversia, la Suprema Corte condivide il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale, confermando che la disciplina dell'orario di lavoro dei macchinisti "fuori turno" deve essere valutata in modo complessivo, tenendo conto non solo delle norme in materia di preavviso, ma anche delle regole in materia di riposi.
Secondo la Cassazione, i giudici di seconda istanza – attraverso la disamina della disciplina complessiva, con una corretta operazione di sussunzione – avevano correttamente escluso l'illegittimità del comportamento della società datrice di lavoro, che aveva applicato la disciplina prevista dal contratto collettivo di categoria, alla cui stregua il disagio costituito dall'orario minimo di preavviso del servizio è compensato con la fruizione di un maggiore riposo.
In terzo luogo, con riguardo all'accertamento circa il lamentato danno biologico derivante dalla colpevole condotta datoriale, la Suprema Corte fa ancora una volta proprie le conclusioni della Corte di merito affermando che nel prospettare l'esistenza di un danno biologico e/o esistenziale derivante dall'orario di lavoro seguito nell'espletamento delle sue mansioni, il lavoratore non aveva fornito alcun elemento probatorio a supporto e, in linea con il consolidato orientamento di legittimità, ha sottolineato che il riconoscimento al lavoratore del danno biologico e/o non patrimoniale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale essendo suo specifico onere «provare l'esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonché il relativo nesso causale con l'inadempimento del datore».
In tal senso, spiega la Suprema Corte, «le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo».
Conclusivamente, ritenendo che, nel caso di specie, tale onere probatorio non è stato assolto dal lavoratore, la Cassazione respinge il ricorso del dipendente.

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