Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare
Trasferimenti d'azienda e decadenza dall'impugnazione
Lavoro giornalistico e subordinazione
Procedimento disciplinare e onere della prova
Contratto a progetto illegittimo

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2021, n. 19585

Pres. Negri della Torre; Rel. Blasutto; P.M. Celeste; Ric. Omissis; Controric. Omissis S.p.A.; Intimata Omissis S.p.A.

Rapporto di lavoro subordinato – Addetta al bar – Omessa registrazione di n. 22 acquisti su richiesta dei capi – Licenziamento disciplinare – Sproporzione – Tutela applicabile (reintegra o indennità) – Previsioni del CCNL – Rilevanza – Interpretazione estensiva – Ammissibilità

Nell'ambito della valutazione di proporzionalità tra la sanzione e i comportamenti, nell'ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le "altre ipotesi" di cui all'art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. l, comma 42, della legge n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria c.d. forte. Ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento illegittimo sarà meritevole della tutela reintegratoria. In presenza di un licenziamento disciplinare illegittimo, la tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 4, St. Lav. riformulato, è applicabile in presenza di una valutazione di non proporzionalità attraverso il parametro della riconducibilità della condotta accertata ad una ipotesi punita con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva

NOTA

Una lavoratrice, addetta al bar presso un centro commerciale di proprietà della società datrice di lavoro, veniva licenziata per aver omesso la registrazione di n. 22 acquisti e la consegna degli scontrini ai clienti, con connessa omissione del versamento dei corrispettivi in cassa in tre giorni diversi. La Corte d'Appello di Genova riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Massa, che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato alla lavoratrice disponendo la reintegrazione della stessa nel posto di lavoro, ai sensi del 4° comma dell'art. 18, L. 300/1970.In sostanza la Corte territoriale riformava la statuizione relativa al regime di tutela applicabile, ritenendo che «la fattispecie rientrasse nelle "altre ipotesi" di cui al comma 5 dell'art. 18 st. lav., per difetto di proporzionalità tra condotta e sanzione, e dichiarava risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento; condannava la (omissis) a corrispondere alla reclamata una indennità pari a diciotto mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto" in quanto: "a) i fatti addebitati sono provati e sostanzialmente neppure contestati; essi tuttavia non sono così gravi da meritare il licenziamento; difatti, è condivisibile quanto ritenuto dal Tribunale nel riconoscere che la ricorrente si era limitata ad assecondare i suoi superiori, sicché il grado di colpa che le può esser addebitato è modesto; b) … evidente il condizionamento subito dalla ricorrente e dalle altre addette al punto vendita, come pure accertato in sede di prova testimoniale; c) tuttavia, …, il comportamento addebitato non può considerarsi frutto di semplice negligenza, tanto da rientrare nell'ipotesi per la quale il CCNL prevede una sanzione conservativa (negligenza nell'adempimento degli obblighi contrattuali), ma è il frutto di una condotta consapevolmente volta a far conseguire non solo ad altri (direttori, capi area, il punto vendita), ma anche alla stessa ricorrente, vantaggi indebiti; … d) va quindi applicato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, quando vi è sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela reale solo quando il fatto accertato rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili, mentre va riconosciuta la tutela risarcitoria se, come nel caso della decisione, la condotta addebitata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa».La lavoratrice impugnava la sentenza di secondo grado in Cassazione. La Suprema Corte accoglie il ricorso ritenendo che l'ordine argomentativo della Corte territoriale «depone quindi per un accertamento di merito circa l'insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo e per la formulazione di un giudizio di non proporzionalità della sanzione (licenziamento) al comportamento addebitato e risultato comprovato nei termini di cui all'accertamento istruttorio».In sostanza, la Corte di Cassazione ha ritenuto che «il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie sono propri del giudice di merito. Nel caso di specie, i giudici di merito di primo e di secondo grado sono pervenuti al medesimo giudizio di non proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto al fatto contestato, divergendo invece quanto alla tutela applicata», precisando che l'individuazione dei presupposti costitutivi dell'una o dell'altra forma di tutela (art. 18, commi 4 e 5, L. 300/1970) deve avvenire sulla base dell'interpretazione dei CCNL, utilizzando i tradizionali criteri dell'ermeneutica contrattuale, ivi compresi quello dell'interpretazione sistematica e quello della ricerca dell'intenzione comune delle parti contraenti, senza limitarsi al senso letterale delle parole, soprattutto ove le previsioni contrattuali appaiano inadeguate per difetto dell'espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione.Dunque, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte territoriale che – in riforma della decisione di primo grado – aveva ritenuto parimenti sproporzionato il licenziamento irrogato all'addetta al bar per non aver registrato alcuni acquisti ma applicato la tutela indennitaria (art. 18, comma 5, L. 300/1970) ritenendo che i fatti ascritti alla dipendente, pur non essendo così gravi da meritare il recesso, non potevano comunque considerarsi frutto di una semplice negligenza e, quindi, ricadere nell'ipotesi per cui il CCNL prevede una sanzione conservativa. In particolare, era emerso che erano stati i responsabili del punto vendita a chiedere alla dipendente, così come ad altre colleghe, di non registrare gli acquisti, al fine di consentire l'utilizzo del denaro il cui incasso non era stato registrato per simulare l'acquisto di prodotti in promozione la cui vendita dava diritto a premi per i direttori, per i capi area e per lo stesso punto vendita.

Trasferimenti d'azienda e decadenza dall'impugnazione

Cass. Sez. Lav., 9 luglio 2021, n. 19589

Pres. Negri Della Torre; Rel. Boghetich; Ric. D.E.; Controric. S.C. S.p.A. e D. S.c.a.r.l. in liquidazione; Intimato S.U.G.C.

Trasferimento d'azienda – Domanda accertamento del rapporto con il cessionario – Termini di decadenza ex art. 32 Collegato lavoro – Applicazione – Esclusione

In tema di trasferimento d'azienda, le disposizioni in materia di decadenza dall'impugnazione di cui all'art. 32, co. 4 lett c) e d), della Legge n. 183/2010 (collegato lavoro), non si applicano ai casi in cui il lavoratore escluso chieda l'accertamento del suo diritto al trasferimento alle dipendenze dell'azienda cessionaria.

NOTA

A seguito del trasferimento di un ramo di azienda, una lavoratrice chiedeva al Tribunale di Napoli l'accertamento del suo diritto al trasferimento alle dipendenze della società cessionaria e contestuale condanna alla costituzione del rapporto di lavoro nonché al pagamento del danno subito per il ritardo nell'assunzione. Sia in primo grado, che in sede di gravame, i Giudici respingevano la domanda attorea, ritenendo che la lavoratrice fosse decaduta dalla possibilità di impugnare il trasferimento, stante il termine di decadenza previsto dall'art. 32, l n. 183 del 2010. Anzi, secondo i Giudici, la decadenza avrebbe operato, anche a volere escludere l'applicabilità nella fattispecie dell'art. 32, comma 4, lett. c) (espressamente riferita all'ipotesi della «cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento»), stante comunque l'applicabilità della successiva lett. d) del medesimo comma disciplinante tutte le ipotesi in cui si deve accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze del terzo quale preteso titolare effettivo. Avverso la decisione di secondo grado la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione.Secondo la ricorrente, infatti, il termine di decadenza previsto nell'art. 32 della l. 183/2010 (cd. collegato lavoro) non può applicarsi all'ipotesi in cui il lavoratore chiede l'accertamento del rapporto di lavoro con la società cessionaria senza impugnativa della cessione di azienda o del ramo di azienda, militando – a supporto di tale interpretazione – diverse ragioni di carattere testuale.Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte ritiene il motivo fondato.Secondo il Collegio, in particolare, il termine di decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, non si applica alle ipotesi in cui il lavoratore non impugni la cessione del contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento ex art. 2112 c.c., ma, all'inverso, la rivendichi. E, infatti, la previsione di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), è espressamente relativa alle ipotesi in cui il lavoratore contesti "la cessione del contratto" o, meglio, il passaggio del rapporto di lavoro, mentre restano estranee alla stessa le ipotesi in cui il lavoratore voglia avvalersi del trasferimento di azienda (formalmente deliberato dal datore di lavoro cedente) e, quindi, di ottenere il riconoscimento del passaggio e della prosecuzione del rapporto di lavoro in capo al cessionario oppure chieda di accertare l'avvenuto trasferimento di azienda che assuma realizzato in fatto e, quindi, la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario.A voler considerare, invece, l'ulteriore lettera (lett. d) dell'art. 32, comma 4, della l. n. 183 del 2010, che introduce un termine di "decadenza" generale per tutti i casi in cui si chiede la costituzione del rapporto presso un terzo, un'interpretazione letterale della stessa conduce a ritenere che si siano volute escludere le fattispecie riconducibili, in qualche modo, a quelle già regolate dalle diverse lettere della norma in questione (nella specie, il fenomeno della cessione del contratto di lavoro, ex art. 2112 c.c., contemplato nella lett. c). D'altronde la norma introduce una rilevante limitazione temporale per l'esercizio dell'azione giudiziaria, che ha necessariamente carattere di eccezionalità in quanto deve essere resa compatibile con i limiti previsti dalla Costituzione (artt. 2, 111 e 117), dal diritto Eurounitario (art. 47 della Carta di Nizza) e dal diritto convenzionale (artt. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo). L'esegesi interpretativa è, peraltro, confermata dalla constatazione che, quando il legislatore ha voluto specificare che una particolare situazione rientrasse nell'ambito applicativo della disposizione "aperta" di cui alla lett. d), nonostante la stessa potesse ritenersi in qualche modo disciplinata nelle ipotesi di cui alle lettere precedenti o potesse avere punti di contatto con esse, lo ha specificato chiaramente. In caso contrario, si avvalorerebbe una interpretazione irragionevolmente estensiva ed avulsa dalla lettera della legge. Infine, secondo la Corte, l'esame complessivo della disposizione presuppone la sussistenza di una sorta di "contatto" lavorativo pregresso tra lavoratore e soggetto diverso dal titolare del contratto, e tale "contatto" certamente non è ravvisabile nella situazione di un lavoratore escluso che rivendichi la cessione del proprio contratto di lavoro nei confronti del cessionario, nell'ambito di un trasferimento ex art. 2112 c.c., perché non si è in presenza di alcuna azione diretta a contrastare fenomeni interpositori o comunque di contitolarità del rapporto di lavoro, ma unicamente del riconoscimento del diritto a rientrare nel gruppo dei lavoratori oggetto della cessione in favore della impresa terza cessionaria.In considerazione delle ragioni esposte, la Suprema Corte, cassa la sentenza della Corte territoriale rinviando alla stessa, in diversa composizione, per un nuovo esame della fattispecie invitandola ad attenersi al principio di diritto secondo cui «le disposizioni di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c) e d), relative al regime di decadenza ivi previsto, non si applicano alle ipotesi nelle quali, in tema di cessione di contratto di lavoro ex art. 2112 c.c., il lavoratore escluso chieda l'accertamento del suo diritto al trasferimento alle dipendenze dell'azienda cessionaria». 

Lavoro giornalistico e subordinazione

Cass. Sez. Lav., 14 luglio 2021, n. 20099

Pres. Balestrieri; Rel. Garri; Ric. R.R.I. S.p.A.; Controric. B.D.

Lavoro giornalistico (redattore) – Subordinazione – Inserimento stabile nell'organizzazione aziendale – Vincolo di disponibilità – Sussistenza – Assenza di vincoli di orario – Luogo della prestazione – Irrilevanza

La subordinazione non è esclusa dal fatto che il prestatore goda di una certa libertà di movimento e non sia obbligato al rispetto di un orario predeterminato o alla continua permanenza sul luogo di lavoro, non essendo neanche incompatibile con il suddetto vincolo la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni, essendo invece determinante che il giornalista si sia tenuto stabilmente a disposizione dell'editore, anche nell'intervallo fra una prestazione e l'altra, per evaderne richieste variabili e non sempre predeterminate e predeterminabili, eseguendone direttive ed istruzioni.

NOTA

La Corte di Appello di Roma, in riforma del provvedimento reso dal giudice di prime cure, accoglieva l'appello promosso dal lavoratore riconoscendo la ricorrenza di un rapporto di lavoro subordinato tra editore e giornalista – redattore, in luogo dei plurimi contratti di collaborazione libero-professionale intercorsi tra le parti.In particolare, la Corte di merito, nel ritenere sussistente il vincolo di subordinazione, accordava rilievo preminente all'inserimento stabile del lavoratore nell'organizzazione aziendale e alla perdurante disponibilità di quest'ultimo nel rendere la prestazione giornalistica richiesta dalla società.Avverso il provvedimento reso dal giudice di seconde cure promuoveva ricorso per cassazione la società, lamentando, principalmente, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c., in quanto la Corte di appello non avrebbe considerato e valorizzato compiutamente, nella fattispecie concreta, l'assenza degli ulteriori indici tipici del rapporto di lavoro subordinato, e cioè a dire: l'insussistenza di precisi vincoli di orario e la libertà del prestatore nella scelta del luogo di lavoro, dimostrativi della genuinità delle collaborazioni autonome dedotte.Tuttavia, nel rigettare il ricorso la Corte di Cassazione ha confermato il proprio orientamento teso ad accordare, in ambito giornalistico, rilievo dirimente al (i) mero inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale e alla (ii) sistematica disponibilità dello stesso nel rendere la prestazione richiesta, quali elementi sufficienti a comprovare la sussistenza di un vincolo di subordinazione seppure attenuato, anche in considerazione del fatto che: «ai fini della individuazione del rapporto di lavoro subordinato ciò che rileva è l'ampiezza delle prestazioni e l'intensità della collaborazione, che devono essere tali da comportare l'inserimento stabile del lavoratore nell'organizzazione aziendale».

Procedimento disciplinare e onere della prova

Cass. Sez. Lav., 8 luglio 2021, n. 19529

Pres. Negri Della Torre; Rel. Arienzo; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. B.G.R. +1Lavoro subordinato – Procedimento disciplinare – Condotta negligente – Riconducibilità alla mansione – Necessità – Ripartizione dell' onere della prova – Indicazione

In caso di accertamento della responsabilità del dipendente per asserita condotta negligente è preliminare la verifica della riconducibilità degli obblighi di diligenza a precise mansioni e disposizioni aziendali. In tal senso, compete al datore di lavoro la prova della fattispecie di inadempimento, oltre che del danno e del nesso di causalità, mentre resta a carico del lavoratore la prova della non imputabilità della violazione delle regole del rapporto ed il grado di diligenza dovuta dal lavoratore – variabile secondo le peculiarità del singolo rapporto – deve essere apprezzato secondo due distinti parametri, costituiti dalla natura della prestazione, ovvero dalla complessità delle mansioni svolte anche con riferimento all'assunzione di responsabilità alle stesse collegata, e dall'interesse dell'impresa, ovvero dal raccordo della prestazione con la specifica organizzazione imprenditoriale in funzione della quale è resa

NOTA

Nel caso di specie la Corte d'Appello di Catania riformava la sentenza emessa dal Tribunale in primo grado che aveva accolto il ricorso della società datrice di lavoro volto ad accertare la negligenza di due dipendenti in relazione alla contabilità delle carte valori e di valori bollati, concorsa, a vario titolo, a determinare un ammanco di carte valori per l'importo di complessivi Euro 48.804,70, condannando gli stessi, in solido, al risarcimento del danno.La Corte d'Appello osservava che i lavoratori che avevano ricevuto la contestazione dalla società erano il direttore della filiale e il soggetto da lui delegato alla gestione dei valori in questione. La contestazione nasceva da un accertamento sulla precedente gestione operato dal successore del direttore di filiale.Secondo la Corte Territoriale però, con riferimento alla condotta del direttore della filiale era rimasto indimostrato il nesso causale tra condotta negligente (mancanza di controllo della gestione dei valori delegati) ed appropriazione di valori da parte di terzi ignoti; con riferimento alla condotta del soggetto delegato, invece, non era dimostrato che tra i compiti delegati rientrassero anche quelli di controllo e rendicontazione delle giacenze di francobolli e valori bollati.Contro la decisione della Corte d'Appello ha proposto impugnazione la società datrice di lavoro sulla base di vari motivi tra i quali, per quanto qui interessa, la violazione dei principi in tema di onere della prova, assumendo che, in tema di riparto dello stesso, di fronte all'ammanco accertato ed al contestato inadempimento, la Corte avrebbe dovuto addossare al direttore di filiale e al dipendente dallo stesso delegato (in quanto entrambi responsabili della gestione dei valori bollati e delle carte valori postali quali delegante e delegato), l'onere di dimostrare l'impossibilità  della prestazione derivante da causa a loro non imputabile.La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra e rigettato il ricorso.In particolare la Cassazione ha rilevato che è proprio da una corretta ripartizione degli oneri probatori che deriva l'obbligo per il datore, in caso di contestazione di una condotta negligente al dipendente, di dimostrare «la riconducibilità degli obblighi di diligenza dei lavoratori a precise mansioni e disposizioni aziendali». Nel caso di specie, sempre secondo la Suprema Corte, non è stata data prova di ciò da parte della società datrice di lavoro, con conseguente impossibilità di addossare la relativa responsabilità ai due dipendenti. In tali ipotesi – ha ribadito la Corte - il datore di lavoro deve provare anche il danno e il nesso di causalità, oltre che «il grado di diligenza dovuta dal lavoratore, variabile secondo le peculiarità del singolo rapporto» apprezzabile secondo due distinti parametri, «costituiti dalla natura della prestazione, ovvero dalla complessità delle mansioni svolte anche con riferimento all'assunzione di responsabilità alle stesse collegata, e dall'interesse dell'impresa». Resta poi in capo al lavoratore l'onere di provare «la non imputabilità della violazione delle regole del rapporto».

Contratto a progetto illegittimo

Cass. Sez. Lav., 9 luglio 2021, n. 19583

Pres. Berrino; Rel. Leo; Ric. E.S. S.p.A.; Controric. Z.M.L.

Contratto a progetto illegittimo – Conversione in rapporto di lavoro subordinato – Diritto alla indennità ex art. 32, comma 5, L. 183/2010 – Sussiste

Il quinto comma dell'art. 32 della L. n. 183 del 2010 contiene una formulazione unitaria, indistinta e generale di "casi" di conversione del "contratto a tempo determinato" senza alcuna specificazione normativa di riferimento, né aggiunta di elementi selettivi. Ne consegue che l'indennità ex art. 32, comma 5, L. 183/2010 si applica anche al contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto illegittimo in quanto fattispecie nella quale ricorrono entrambe le condizioni di applicabilità previste dalla citata norma quali la natura a tempo determinato del contratto di lavoro e la presenza di un fenomeno di conversione.

NOTA

Una lavoratrice ha interposto appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma, con la quale era stato respinto il ricorso diretto all'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e «della illegittimità, inefficacia e nullità del licenziamento alla stessa intimato» ed alla «condanna della società alla reintegra nel posto di lavoro ed al pagamento della retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento a quella della reintegra o, in subordine, al risarcimento del danno, in misura non inferiore a sei mensilità, nonché al pagamento delle differenze retributive ed al versamento dei contributi previdenziali da assistenziali». La Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della pronunzia impugnata, ha dichiarato «la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con diritto dell'appellante al ripristino del rapporto» ed ha condannato «la società appellata alla regolarizzazione contributiva del rapporto sin dal suo inizio ed al pagamento in favore dell'appellante, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni fino alla data della sentenza di appello». Per la Cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società lamentando, tra il resto, che i giudici di seconda istanza hanno errato nell'applicare nella fattispecie la normativa in tema di conseguenze risarcitorie in capo al datore di lavoro a seguito dell'accertata subordinazione. Oggetto del giudizio è quindi «l'applicabilità o meno dell'indennità onnicomprensiva di cui all'art. 32, quinto comma, della L. n. 183 del 2010 ai contratti di collaborazione a progetto dichiarati illegittimi; norma ai sensi della quale, in caso di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna la parte datoriale al risarcimento, in favore del lavoratore, stabilendo una indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della I. n. 604 del 1966».La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dando continuità ai consolidati arresti giurisprudenziali secondo i quali: «il quinto comma dell''no di conversione; condizioni che sussistono, entrambe, nella fattispecie, nella quale, in carenza di uno specifico progetto, funzionalmente collegato al raggiungimento di un risultato finale, il rapporto è stato convertito automaticamente, ai sensi dell'art. 69, primo comma del D.Lgs. n. 276/2003, applicabile ratione temporis».La Corte di legittimità ha quindi concluso per l'accoglimento del motivo di impugnazione, non essendosi la Corte d'Appello uniformata ai principi enunciati.

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