Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento del lavoratore in malattia che svolge attività extralavorativa
Comunicazione tradiva del liceziamento e tutela indennitaria
Post denigratori dell'azienda e licenziamento per giusta causa
Reintegrazione del lavortaore se il fatto è privo del carattere di illiceità


Licenziamento del lavoratore in malattia che svolge attività extralavorativa

Cass. Sez. Lav., 7 ottobre 2021, n. 27322

Pres. Raimondi; Rel. Lorito; Ric. B. S.p.A.; Controric. P.P.U.

Assenza per malattia – Svolgimento di attività extralavorativa – Attività compatibile con lo stato patologico – Licenziamento – Giusta causa – Illegittimità

È illegittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che durante l'assenza per malattia svolga attività extra lavorative non idonee ad aggravare la patologia né a ritardare la guarigione.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, riformando la pronuncia di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che, durante l'assenza per malattia per lombosciatalgia, effettuava brevi spostamenti con l'autovettura e il motociclo e puliva alcune bottiglie e ne ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte d'Appello osservava che, in base al parere del nominato ausiliare medico-legale, le attività extra lavorative svolte dal dipendente nel periodo di malattia, così come emerse in sede istruttoria, non avessero aggravato la patologia da cui era affetto – patologia realmente esistente, non simulata – né ritardato la guarigione.

Avverso tale decisione interpone ricorso per Cassazione il datore di lavoro.In particolare, la società eccepisce che la Corte territoriale avrebbe errato nell'interpretazione delle acquisizioni probatorie per aver ritenuto che il lavoratore non avesse provveduto personalmente allo scarico di pannelli isolanti per la costruzione della tettoia di un ricovero per cani alla quale si era dedicato in quel periodo, essendosi limitato alla assistenza di coloro che se ne erano occupati. Al contrario, a parere della Società, tale attività avrebbe causato il prolungamento della malattia.La Suprema Corte dichiara inammissibile il motivo di impugnazione, ribadendo che in sede di legittimità non può essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dalla Corte territoriale, consistendo, sia la valutazione delle stesse che la scelta delle risultanze probatorie da porre a base della decisione, in un apprezzamento riservato al giudice di merito. Osserva, dunque, la Corte di Cassazione che correttamente la Corte d'Appello di Roma ha recepito nella propria motivazione gli esiti degli accertamenti medico-legali dai quali era emerso che la malattia certificata e posta a giustificazione della assenza dal lavoro era realmente sussistente e che l'attività fisica compiuta dal ricorrente non aveva aggravato la patologia da cui era affetto. 

Comunicazione tradiva del liceziamento e tutela indennitaria

Cass. Sez. Lav., 13 ottobre 2021, n. 27935

Pres. Raimondi; Rel. Pagetta; Ric. B.M.; Controric. S. S.r.l.

Licenziamento – Giusta causa – Tardività – Inefficacia – Conseguenze – Tutela ex art. 18, comma 6 – Indennità risarcitoria

Il recesso datoriale adottato con deliberazione dell'Amministratore Unico della società datrice di lavoro entro il termine di 30 giorni dalla presentazione delle giustificazioni del lavoratore, ma comunicato al lavoratore successivamente al predetto termine (in violazione di quanto prescritto dall'art. 41 del CCNL applicato al rapporto), è inefficace con conseguente applicazione della sola tutela indennitaria ex art. 18 comma 6 della Legge Fornero e non della reintegrazione.

NOTA

Il Tribunale di Brindisi confermava l'ordinanza del medesimo Tribunale, emessa in un procedimento instaurato ai sensi del rito Fornero, con la quale era stato annullato il licenziamento per giusta causa al lavoratore al quale era stato contestato di aver commesso in danno dell'azienda vari reati, quali peculato, furto aggravato, appropriazione indebita e truffa aggrevata nonché il reiterato allontanamento, senza autorizzazione dal posto di lavoro. La decisione del Tribunale si basava sulla circostanza che il recesso datoriale era stato comunicato oltre il termine di 30 giorni dalla presentazione delle giustificazioni da parte del lavoratore, in violazione dell'art. 41 del CCNL applicato al rapporto. La società veniva pertanto condannata a reintegrare il lavoratore e a pagare un'indennità risarcitoria pari all'ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino all'effettiva reintegra in misura non superiore a 12 mensilità oltre ai contributi previdenziali. La Corte di appello di Lecce, in parziale accoglimento del reclamo promosso dalla società, ritenendo provati i fatti e proporzionata la sanzione espulsiva, dichiarava la inefficacia del licenziamento e condannava la società al pagamento di un'indennità risarcitoria omnicomprensiva pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto in quanto, secondo la Corte di appello, il termine di 30 giorni per l'adozione del provvedimento espulsivo, previsto dall'art. 41 del CCNL applicato, non aveva natura decadenziale. Difatti, secondo la Corte di appello, nell'art. 41 citato, il termine di 30 giorni faceva riferimento all'adozione del provvedimento espulsivo e non alla sua comunicazione. Pertanto «la mancata comunicazione entro il termine di 30 giorni rilevava sotto il diverso profilo del difetto della tempestività (…) ed in relazione alla quale doveva ritenersi la completa equiparazione tra tardività nella contestazione degli addebiti e tardività della irrogazione della sanzione». Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorreva il lavoratore in Cassazione. Quest'ultima, ritenendo pacifico che l'atto di recesso datoriale era stato adottato dalla società entro il termine dei 30 giorni dalla ricezione delle giustificazioni, previsto dall'art. 41 del CCNL, pur se comunicato successivamente, rigetta il ricorso, accogliendo l'interpretazione della disposizione collettiva effettuata dalla Corte di appello.  

Post denigratori dell'azienda e licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 13 ottobre 2021, n. 27939

Pres. Raimondi; Rel. Patti; P.M. Visonà; Ric. V.R.; Controric. T. S.p.A.

Giusta causa – Fattispecie: diffamazione a mezzo social – Post denigratori dell'azienda e dei superiori – Insubordinazione – Licenziamento – Legittimità

È legittimo il licenziamento del dipendente che pubblichi sul proprio profilo social, accessibile a tutti, post denigratori dell'azienda e dei superiori. Il mezzo utilizzato, infatti, determina la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone con la conseguenza che la condotta tenuta integra gli estremi della diffamazione e costituisce giusta causa di recesso siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma respingeva il reclamo proposto dal lavoratore avverso la decisione con cui il Tribunale aveva rigettato l'impugnazione del licenziamento per giusta causa intimatogli dal datore di lavoro.La Corte territoriale ribadiva, infatti, come il contenuto delle dichiarazioni del lavoratore effettuate sul proprio profilo social fosse gravemente offensivo nei confronti dei suoi superiori gerarchici e dell'azienda datrice di lavoro, e che tale comportamento integrava insubordinazione grave, a norma della previsione contrattuale collettiva, e comunque giusta causa di licenziamento, tale da precludere la prosecuzione del rapporto per l'elisione del legame di fiducia tra le parti, anche considerato il ruolo aziendale del lavoratore (ossia di account manager per la gestione della comunicazione pubblicitaria della società datrice di lavoro).Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione lamentando, con un primo motivo di ricorso, l'illegittima acquisizione da parte della società datrice dei posts presenti sulla pagina social del lavoratore, in quanto a suo dire destinata alla comunicazione esclusiva con i propri "amici" e pertanto riservata, espressiva di una modalità incompatibile con la denigrazione o la diffamazione come invece ritenuto dalla Corte d'Appello. Con un secondo motivo di ricorso, il lavoratore ha sostenuto, poi, l'erronea qualificazione della sua condotta come grave insubordinazione ai superiori, a suo dire ricorrente in caso di inadempimento degli ordini e delle direttive datoriali o dei superiori gerarchici, non in caso di alterco, diverbio o aspra critica.La Corte di Cassazione ritiene entrambi i motivi infondati e rigetta il ricorso.Sul primo motivo di ricorso, la Suprema Corte premette come nel caso in esame non ricorra un'esigenza di protezione del commento offensivo del lavoratore e la conseguente illegittimità della sua utilizzazione in funzione probatoria, come invece accade in caso di messaggi scambiati in una chat privata e diretti unicamente agli iscritti di un determinato gruppo, da considerarsi quindi come corrispondenza privata, chiusa ed inviolabile.Ed infatti, evidenzia la Suprema Corte, il mezzo utilizzato dal lavoratore nel caso esaminato, ossia la pubblicazione dei post sul profilo personale del social, è idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (così come accertato all'esito del giudizio di merito tramite supporto tecnico per la comprensione dell'articolata modulazione dei messaggi sul social e della diversa fruibilità esterna). Una simile condotta, ribadisce la Corte di Cassazione, integra gli estremi della diffamazione e costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo (Cass. 27 aprile 2018, n. 10280).In relazione al secondo motivo di ricorso, la Suprema Corte ribadisce poi il proprio orientamento secondo cui la nozione di insubordinazione non può ritenersi limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804). E così, precisa la Corte di Cassazione, «la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall'art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli» (Cass. 11 maggio 2016, n. 9635).

Reintegrazione del lavortaore se il fatto è privo del carattere di illiceità

Cass. Sez. Lav., 13 ottobre 2021, n. 27938

Pres. Raimondi; Rel. Leo; Ric. I. S.p.A.; Contr. T.G.

Licenziamento disciplinare – Giusta Causa – Art. 18 Stat. Lav. – Fatto contestato – Sussistente – Non illecito – Conseguenze – Reintegrazione – Società in amministrazione straordinaria – Competenza – Giudice del lavoro – Sussistenza

È prevista la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, quarto comma, della l. n. 300 del 1970, non solo quando il fatto è insussistente nella sua materialità, ma anche quando sussiste ma è privo del carattere di illiceità o non è imputabile al lavoratore.Qualora risulti l'interesse del lavoratore alla tutela della propria posizione all'interno dell'impresa (in amministrazione straordinaria), spetta al giudice del lavoro la cognizione delle domande di impugnazione del licenziamento, di reintegrazione nel posto di lavoro e di accertamento della misura dell'indennità risarcitoria dovutagli.

NOTA

La Corte di Appello di Lecce ha accolto il reclamo Fornero presentato da un lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro, riformando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Taranto con la quale era stata respinta l'opposizione presentata dal lavoratore all'ordinanza di rigetto dell'impugnativa del licenziamento intimatogli per giusta causa. In particolare, la Corte d'Appello ha rilevato che fosse da escludersi che il lavoratore, quale tecnico d'area, avesse potuto firmare ordini di acquisto – fatto, questo, oggetto di contestazione che aveva condotto al licenziamento per giusta causa – e che, al contrario lo stesso si era limitato a rappresentare l'esigenza di acquisto al capo area, rimanendo, tuttavia, totalmente estraneo ai successivi passaggi della procedura, appunto, di acquisto.La Corte territoriale ha quindi, dichiarato l'illegittimità del provvedimento espulsivo per la non illiceità del fatto contestato e, per l'effetto, lo ha annullato ed ha condannato la società alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso in Cassazione censurando la decisione sotto svariati profili. Per quanto qui rileva, la Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte pugliese in quanto coerente con i principi generali da applicare al caso concreto in tema di licenziamento per giusta causa e conseguenze risarcitorie in caso di illegittimità.In primo luogo, la Corte di Cassazione evidenzia come la Corte territoriale abbia correttamente escluso la sussistenza della giusta causa alla base del licenziamento, dopo aver attentamente analizzato le risultanze istruttorie e, in generale, la condotta ascritta al lavoratore. In secondo luogo, la Suprema Corte conferma che al caso in esame debba essere applicata la tutela reintegratoria di cui all'art. 18 comma 4, Stat. Lav. per insussistenza del fatto contestato, sottolineando – in linea con il consolidato orientamento sul punto – che tale tutela è prevista «non solo quando il fatto è insussistente nella sua materialità, ma anche quando sussiste, ma è privo del carattere di illiceità o non è imputabile al lavoratore». In terzo luogo, la Cassazione ritiene non condivisibili le argomentazioni svolte dalla società in merito al fatto che, trovandosi la stessa in regime di amministrazione straordinaria, anche al fine di non determinare una disparità di trattamento tra i vari creditori, il tribunale fallimentare doveva ritenersi competente anche per le azioni relative ai rapporti di lavoro, come nel caso di specie.A tal proposito, la Corte evidenzia – alla luce del costante orientamento giurisprudenziale – che: «Qualora risulti l'interesse del lavoratore all'accertamento del diritto di credito risarcitorio in via non meramente strumentale alla partecipazione al concorso nella procedura di amministrazione straordinaria, bensì, effettivo alla tutela della propria posizione all'interno dell'impresa, spetta al giudice del lavoro la cognizione delle domande di impugnazione del licenziamento, di reintegrazione nel posto di lavoro e di accertamento, nel vigore del testo dell'art. 18 l. 300/1970 come novellato dalla l. 92/2012, della misura dell'indennità risarcitoria dovutagli».Conclusivamente, la Suprema Corte respinge il ricorso della società.

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