Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento ritorsivo
Licenziamento disciplinare per conversazioni denigratorie dell'immagine aziendale
Verifica della simulazione della malattia e licenziamento per giusta causa
Permanente inidoneità alla mansione e licenziamento per g.m.o
Licenziamento di un lavoratore in aspettativa sindacale

Licenziamento ritorsivo

Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30574

Pres. Raimondi; Rel. Pagetta; P.M. Mucci; Ric. F.O.D.A.O.F.; Controric. S.G.

Licenziamento ritorsivo – Preventiva verifica dell'insussistenza del motivo formalmente addotto – Necessità – Onere della prova a carico del lavoratore – Sussiste – Valutazione presuntiva in base al complesso degli elementi acquisiti – Ammissibilità

Il giudice di merito ben può, al fine di ritenere ricorrente un motivo ritorsivo alla base del licenziamento, valorizzare tutto il complesso degli elementi acquisiti nel giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso

NOTA

La Corte di Appello di Firenze confermava la sentenza di primo grado ritenendo nullo il licenziamento irrogato ad un Direttore Sanitario (DS) in ragione della rintracciabilità di un intento ritorsivo alla base del recesso, con conseguente condanna del datore al ripristino del rapporto di lavoro.
Secondo la Corte distrettuale, la Società non aveva provato il motivo oggettivo che aveva portato al licenziamento del prestatore consistente, secondo la prospettazione datoriale, nell'esigenza di riorganizzare l'assetto dirigenziale attraverso una riduzione dell'orario lavorativo del DS. In particolare, solo dopo che quest'ultimo aveva opposto il suo rifiuto alla conversione del rapporto da full-time in part-time, l'azienda aveva deciso di procedere alla risoluzione del vincolo lavorativo. Per il giudice di seconde cure, quindi, la mancata prova del motivo oggettivo addotto e la simultanea irrogazione del licenziamento costituivano due elementi idonei a comprovare la ricorrenza di un motivo ritorsivo, seppur in via solamente presuntiva.
Avverso la predetta statuizione ha promosso ricorso in Cassazione la Società chiedendo la riforma del provvedimento di merito non essendo sufficiente, a parere dell'azienda, la mancata prova del motivo oggettivo per qualificare il licenziamento come ritorsivo dovendo, invece, il lavoratore provare in maniera rigorosa la ricorrenza del motivo illecito.Tuttavia, nel rigettare il ricorso, i giudici di legittimità hanno ribadito che l'insussistenza del presupposto causale del licenziamento è un elemento idoneo a comprovare presuntivamente la fisionomia ritorsiva dell'atto risolutivo e che: «il giudice di merito ben può a tal fine valorizzare tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo» a patto che «consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso».

Licenziamento disciplinare per conversazioni denigratorie dell'immagine aziendale

Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30600

Pres. Berrino; Rel. Pagetta; Ric. N.S.; Controric. F.N. S.r.l.

Licenziamento disciplinare – Fattispecie: conversazioni denigratorie dell'immagine aziendale – Legittimità

È legittimo il licenziamento in caso di conversazioni denigratorie dell'immagine aziendale intrattenute con la responsabile di una società del gruppo e di proferimento di epiteti offensivi all'indirizzo del legale rappresentante con allusioni a condizioni patologiche dello stesso attinenti a dati personali riservati e sensibili.

NOTA

La Corte d'Appello di Napoli, pronunziando in sede di reclamo ex L. 92/2012, ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto della impugnativa di licenziamento per motivi disciplinari intimato dal datore di lavoro alla propria dipendente, ritenendo provato l'addebito contestato alla lavoratrice, consistente, in sintesi, in conversazioni denigratorie dell'immagine aziendale intrattenute con la responsabile di una società del gruppo e nel proferimento di epiteti offensivi nei confronti del legale rappresentante della Società, con allusioni a condizioni patologiche dello stesso attinenti a dati personali riservati e sensibili.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice per avere, la sentenza di appello, ritenuto provata la giusta causa di licenziamento fondandola su motivi che non sono stati ritenuti dal giudice di prime cure causa "scatenante" del recesso datoriale. In particolare la lavoratrice riteneva che «la Corte d'Appello aveva posto a base del licenziamento due contestazioni disciplinari, datate rispettivamente 13.09.2012 e 2.11.2012, ricollegando a quest'ultima il nucleo centrale dell'inadempimento contestato alla lavoratrice; tanto aveva determinato uno stravolgimento, con sostanziale valutazione di irrilevanza, dei fatti oggetto della prima contestazione; ciò nonostante tali fatti avessero assunto un rilievo primario ed il giudice di prime cure avesse fondato sugli stessi la valutazione dell'accertamento della giusta causa di licenziamento».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che «è infondata la critica che ascrive al giudice di appello di avere ritenuto provato l'addebito relativo alle espressioni denigratorie dell'immagine aziendale nella conversazione telefonica intercorsa con la rappresentante di altra società sulla base della non contestazione della dichiarazione». La Corte di merito, infatti, ha ritenuto fondato l'addebito relativo alle espressioni denigratore dell'immagine aziendale rilevando che la lavoratrice, nel rispondere alla lettera di contestazione, non aveva specificamente negato il fatto, né aveva allegato il contenuto delle conversazioni avute con il suo interlocutore, né offerto prova contraria, e che, al contrario la società aveva offerto un riscontro documentale costituito dalle dichiarazioni scritte rilasciate dalla detta responsabile della società del gruppo. La Corte di legittimità ha quindi rigettato il ricorso affermando che «gli elementi richiamati, sufficienti a sorreggere l'accertamento alla base della decisione di secondo grado, al di là di alcune improprietà lessicali da parte della Corte di merito nel richiamare gli oneri probatori a carico del lavoratore licenziato, escludono che la statuizione relativa al primo addebito scaturisca dalla errata applicazione del principio di non contestazione riferito agli elementi documentali. Essa si rivela pertanto coerente con l'insegnamento di questa Corte, secondo il quale non può porsi un onere di disconoscimento di un documento proveniente da terzi a carico della parte non onerata che è liberamente valutabile come prova atipica».

Verifica della simulazione della malattia e licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30547

Pres. Berrino; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.A. S.r.l.; Controric. R.M.

Lavoro subordinato – Giusta causa licenziamento – Verifica simulazione della malattia tramite agenzia investigativa – Legittimità – Verifiche di tipo sanitario – Esclusione

In tema di licenziamento per giusta causa, la disposizione di cui all'art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza ad effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l'assenza.

NOTA

La sentenza in esame riporta il caso di un dipendente che era stato licenziato all'esito di un procedimento disciplinare nell'ambito del quale gli erano stati contestati diversi addebiti, tra i quali quello di aver simulato per alcuni giorni uno stato di malattia insussistente in quanto lo stesso era in grado di svolgere la prestazione lavorativa.
La Corte d'Appello di Salerno aveva ribaltato il giudizio del giudice di prime cure, dichiarando l'illegittimità del licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro e condannando la stessa alla reintegra del lavoratore. Secondo la Corte d'Appello, infatti, non sussisteva prova della simulazione della malattia da parte del lavoratore o comunque di condotte incompatibili con la lombosciatalgia certificata dallo stesso e, in aggiunta, le altre condotte contestate potevano essere punite con una sanzione conservativa. In particolare la Corte territoriale aveva ritenuto che gli accertamenti in merito allo stato di malattia del lavoratore potessero essere eseguiti solo mediante visita fiscale e, pertanto, le verifiche svolte sul punto mediante agenzia investigativa e le relative risultanze erano state dichiarate inutilizzabili.Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo – tra l'altro – violazione dell'art. 5 dello Statuto dei Lavoratori, nonché degli articoli 2106, 2113 e 2697 c.c., per avere la Corte d'Appello ritenuto inutilizzabili gli accertamenti circa lo stato di malattia del lavoratore in quanto svolti mediante agenzia investigativa e non attraverso il medico fiscale.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato tale motivo, accolto il ricorso e cassato la decisione impugnata.Sul punto la Suprema Corte ha confermato un principio di diritto ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale «la disposizione di cui all'art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l'assenza». Nel caso di specie, dunque, ha errato la Corte d'Appello nel ritenere che la società datrice di lavoro non potesse verificare aliunde l'effettività dello stato di malattia del lavoratore – pertanto mediante la verifica di circostanze di fatto incompatibili con la stessa– utilizzando un'agenzia investigativa anziché il servizio ispettivo di INPS.

Permanente inidoneità alla mansione e licenziamento per g.m.o

Cass. Sez. Lav., 29 ottobre 2021, n. 30932

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Celeste; Ric. principale e Controric. Incidentale P.I. S.p.A.; Controric. e Ric. Incidentale M.I.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Permanente inidoneità alla mansione della lavoratrice – Esami della Commissione Medica di Verifica – Vincolatività – Esclusione – CTU successiva – Ammissibilità

Il giudice di merito ben può sindacare l'attendibilità degli esami svolti dalla Commissione medica competente, essendo libero di disattenderne l'esito qualora riscontri profili di contraddittorietà e/o illogicità.

NOTA

La Corte di Appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento, adottato «sull'accertamento, compiuto il 22.7.2015 dalla Commissione Medica di Verifica di Firenze, con il quale la lavoratrice era stata ritenuta permanentemente inidonea alla prestazione lavorativa e al lavoro proficuo in modo assoluto», e intimato in data 6 agosto 2015 dalla datrice di lavoro, con condanna di quest'ultima alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, oltre accessori e regolarizzazione contributiva.
La Corte territoriale riteneva che «il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, consistente nella assoluta e permanente capacità lavorativa all'interno del contesto aziendale, era illegittimo per insussistenza del fatto», in quanto l'accertamento compiuto dalla Commissione Medica in data 29 maggio 2015 si era rilevato contradditorio, anche in considerazione delle risultanze dalla espletata CTU medico-legale secondo cui «la perizianda, che soffriva da molti anni di depressione, era in buon equilibrio da oltre un anno e da tempo senza farmaci e che la medesima situazione era presente anche all'epoca del giudizio da parte della CMV».
Avverso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, cui la lavoratrice ha resistito con controricorso formulando anche ricorso incidentale.La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter logico-giuridico della Corte territoriale che aveva disposto una CTU medico-legale, avendo ritenuto contraddittorio l'accertamento compiuto dalla Commissione Medica che «da un lato, aveva escluso il diritto alla pensione di invalidità in carenza di un'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa e, dall'altro, aveva affermato l'inidoneità della lavoratrice al servizio in ragione delle infermità riscontrate».
Sul punto la Corte di Cassazione precisa che «il giudice, in forza dei principi costituzionali posti a garanzia della piena ed effettiva tutela processuale, ha il potere-dovere di vagliare e verificare l'attendibilità degli accertamenti sanitari espletati, in sede amministrativa, dalla Commissione medica competente, a prescindere dalla loro eventuale opposizione e/o impugnazione in sede amministrativa, trattandosi di meri atti di verifica sanitaria, compiuti in base ad un giudizio di discrezionalità tecnica».In sostanza, sulla base di quanto accertato dalla CTU medico-legale in contrasto con gli esami effettuati dalla precedente Commissione Medica, è stata esclusa la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo per l'insussistenza del motivo posto alla base dello stesso e consistente nella assoluta e permanente incapacità lavorativa della lavoratrice.Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il ricorso principale della datrice di lavoro e dichiara inammissibile il ricorso incidentale proposto della lavoratrice.

Licenziamento di un lavoratore in aspettativa sindacale

Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30495

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Celeste; Ric. L.G.; Controric. C.U.S.T.T.

Aspettativa sindacale – Effetti sul rapporto di lavoro – Possibilità di recedere dal rapporto per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo – Sussistenza – Efficacia – Immediata

Il diritto all'aspettativa sindacale determina la sospensione degli obblighi sinallagmatici relativi al rapporto di lavoro sino al termine del mandato, per cui il lavoratore avrà diritto a godere di tutti i diritti non incompatibili con la sua assenza, come per esempio quelli alla corresponsione dei premi aziendali, agli assegni familiari, agli scatti di anzianità, alle anticipazioni del TFR, alle prestazioni sanitarie ed economiche di malattia, alla indennità di disoccupazione speciale. Quanto, invece, ai risvolti del collocamento in aspettativa del lavoratore cui siano stati conferiti incarichi sindacali, relativamente ad una eventuale estinzione del rapporto, deve sottolinearsi che, se è esclusa intrinsecamente l'operatività dell'istituto della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, tuttavia non può escludersi la possibilità di un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo, dovendosi ritenere che al lavoratore chiamato a tali incarichi non possa riconoscersi una situazione di privilegio rispetto a quella offerta dalla legge agli altri dipendenti in servizio, avendo l'articolo 31 della legge 300/70 soltanto l'efficacia di escludere che l'accettazione del mandato comporti, di per sé, la perdita del posto di lavoro. Pertanto, il licenziamento di un dipendente in aspettativa per motivi sindacali è immediatamente efficace.

NOTA

Una lavoratrice, impiegata presso la sezione territoriale di un'organizzazione sindacale, chiedeva di essere collocata in aspettativa sindacale ex art. 31 st. lav., prima per l'espletamento del mandato di segretario politico-amministrativo della sezione provinciale e poi quale Componente del Consiglio Generale dell'organizzazione sindacale. Durante il periodo di aspettativa sindacale la lavoratrice veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo.Impugnato il licenziamento, la lavoratrice adiva l'autorità giudiziaria per ottenere la declaratoria della inefficacia del licenziamento intimatole durante il periodo di aspettativa sindacale ex art. 31 dello St. lav., ottenendo però un rigetto sia in primo grado che in sede di gravame. E, infatti, la Corte di appello di Lecce – Sezione Distaccata di Taranto, confermando la pronuncia resa dal Tribunale di Taranto, rilevava che: a) la tutela riservata ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche elettive, anche sindacali, comportava certamente una sospensione del rapporto per tutta la durata del mandato, ma non anche il divieto di recesso, quando questo fosse motivato, come nella specie, da ragioni oggettive, quale la soppressione del posto occupato dal dipendente interessato; b) la temporanea inefficacia, sino al termine del mandato, del licenziamento non può essere invocata per analogia alle altre ipotesi di "moratoria" del rapporto, espressamente disciplinate dagli artt. 2110 e 2111 c.c., che sono tutte caratterizzate dalla materiale impossibilità, per il lavoratore e per cause non riconducibili alla sua volontà, di rendere la prestazione; c) la motivazione del licenziamento, intimato alla lavoratrice, era quella contenuta nella lettera inviatale e, cioè, per la "improcrastinabile necessità di procedere alla cessazione di attività non essenziali, alla riorganizzazione dell'organico e alla riduzione dei costi" e ciò escludeva ogni intento discriminatorio del recesso; d) non vi era stata violazione dei criteri di scelta perché gli altri lavoratori impiegati in analoghe mansioni erano o autonomi o gravati da carichi familiari inesistenti invece per la lavoratrice ricorrente. Avverso la suddetta sentenza la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione affidato – per quel che qui rileva – ad un unico motivo.In particolare, secondo la ricorrente, la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimatole in un periodo in cui ella si trovava in aspettativa sindacale, fosse immediatamente efficace, senza considerare che l'efficacia del recesso decorre dal momento della cessazione del periodo di sospensione, cioè a partire dal rientro dall'aspettativa. Una diversa interpretazione dell'art. 31 St. lav., secondo la ricorrente, avrebbe comportato la illegittimità costituzionale della disposizione, in relazione agli artt. 3 e 39 Cost., nella parte in cui non viene contemplata la temporanea inefficacia del licenziamento per il lavoratore chiamato a svolgere funzioni sindacali.
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte considera il ricorso del tutto infondato.Innanzitutto, la S.C. chiarisce che alla base del ricorso vi è un unico quesito giuridico: se, in ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro per permettere al lavoratore l'adempimento del mandato sindacale, consegua il divieto o la temporanea inefficacia del licenziamento. Al fine di rispondere ad un simile quesito, la S.C. procede con una ricostruzione sistematica del diritto di aspettativa sindacale tutelato, in attuazione dell'art. 51 Cost., comma 3, dall'art. 31 dello Statuto dei Lavoratori. La Corte ricorda come il diritto in questione si presenta come un diritto di natura potestativa ed il cui esercizio prescinde da ogni autorizzazione o manifestazione di volontà da parte del datore di lavoro che viene a trovarsi in una posizione di soggezione immediata ed incondizionata proprio perché si confronta con il munus publicum cui il diritto di aspettativa si collega, con decorrenza automatica dal momento della comunicazione. Sotto il profilo effettuale, il diritto all'aspettativa sindacale determina poi la sospensione degli obblighi sinallagmatici relativi al rapporto di lavoro sino al termine del mandato, per cui il lavoratore avrà diritto a godere di tutti i diritti non incompatibili con la sua assenza come per esempio quelli alla corresponsione dei premi aziendali, agli assegni familiari, agli scatti di anzianità, alle anticipazioni del TFR, alle prestazioni sanitarie ed economiche di malattia, alla indennità di disoccupazione speciale.
Quanto, invece, ai risvolti del collocamento in aspettativa, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 31, del lavoratore cui siano stati conferiti incarichi sindacali, relativamente ad una eventuale estinzione del rapporto, la S.C. sottolinea che, se è esclusa intrinsecamente l'operatività dell'istituto della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, tuttavia non può escludersi la possibilità di un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo. Al lavoratore chiamato a tali incarichi, così come quello chiamato alle funzioni pubbliche elettive, infatti non può riconoscersi una situazione di privilegio rispetto a quella offerta dalla legge agli altri dipendenti in servizio, avendo la L. n. 300 del 1970, art. 31, soltanto l'efficacia di escludere che l'accettazione del mandato comporti, di per sé, la perdita del posto di lavoro.
La ratio della suddetta disposizione deve individuarsi, secondo gli Ermellini, nella necessità che il lavoratore sia messo nella condizione migliore per svolgere l'incarico conferitogli, di modo che la dispensa dall'eseguire la prestazione lavorativa, inerente al collocamento in aspettativa, non costituisca ragione lecita perché il datore possa disfarsi di lui licenziandolo, ma non anche nell'attribuire al lavoratore, chiamato ad un incarico sindacale, una situazione di privilegio.
Quanto poi ai profili di illegittimità costituzionale dell'art. 31 St. lav., in relazione agli artt. 3 e 39 Cost., denunciati dalla lavoratrice nella parte in cui non è prevista la temporanea inefficacia del licenziamento per il lavoratore chiamato a svolgere funzioni sindacali, analogamente a quanto accade per altre fattispecie come quelle disciplinate dagli artt. 2110 e 2111 c.c. (infortunio, malattia, gravidanza, puerperio e servizio militare), la Corte li ritiene del tutto infondati.E, infatti, sotto il profilo della manifesta infondatezza la Corte evidenzia che sono totalmente differenti le situazioni giuridiche soggettive sottese alle diverse situazioni, sia da un punto di vista genetico che funzionale, in quanto quelle degli artt. 2110 e 2111 c.c., non costituiscono esercizio di un diritto potestativo ma sono diritti connessi ad eventi, anche volontari, che incidono in maniera cogente sulla attuazione del rapporto di lavoro, non consentendone l'esercizio per ragioni oggettive e con riguardo ad un determinato periodo temporale, stabilito dalla legge o da una autorità esterna.
Nella ipotesi di aspettativa non retribuita per motivi sindacali, invece, tale cogenza diretta ed immediata non è ravvisabile perché ben può accadere che il periodo di sospensione dell'attività lavorativa anziché in modo unico, venga frazionato in distinti periodi di maggiore o minore durata nel caso di espletamento del mandato o che l'incarico sindacale possa continuare, in considerazione della sua natura e del fatto che non riguardi i cd. "sindacalisti interni" alla azienda, a prescindere dalla cessazione del rapporto, non rappresentando, così, alcuna lesione delle prerogative previste dalla normativa in materia.In altri termini, le situazioni comparate sono differenti e la tutela costituzionale, da rapportare nel caso di specie all'art. 51 Cost., più che all'art. 39 Cost. (disposizione che riguarda nello specifico i sindacati e non il sindacalista), mira a tutelare, come detto, solo la eventualità che l'accettazione del mandato comporti, di per sé, la perdita del posto di lavoro, ma non anche la prevaricazione di tale accettazione sul diritto, altrettanto costituzionalmente tutelato, all'iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost., di cui il licenziamento, per giustificato motivo oggettivo, quanto al momento della sua decorrenza, rappresenta espressione di un atto di gestione, lasciato alla insindacabile determinazione datoriale, in un'ottica, naturalmente, di bilanciamento dei diritti e degli interessi in contesa e di rispetto della legge.La diversa decorrenza, stabilita dal legislatore, per la operatività del recesso nelle ipotesi di cui agli artt. 2110 e 2111 c.c., rispetto a quella prevista nei casi di aspettativa sindacale, trova, quindi, una sua giustificazione nelle differenti situazioni poste a confronto.Per i giudici di legittimità, infine, il sistema non presenta neanche profili di irragionevolezza perché, rispetto al licenziamento di un lavoratore in aspettativa sindacale che si dimostri privo delle ragioni per cui fu intimato, l'ordinamento prevede già un complesso di tutele sostanziali e processuali idonee a garantire in modo pieno i lavoratori sindacalisti: come per esempio, in ipotesi di dimostrata natura discriminatoria del recesso, la tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, ovvero, per i sindacalisti interni, gli strumenti di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 11, 12,13 e 14.

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