Contenzioso

Trasferimento d’azienda nullo, retribuzione integrale dovuta anche con la buonuscita del cessionario

di Angelo Zambelli

In caso di accertata nullità della cessione di un ramo di azienda e di messa in mora del datore di lavoro cedente, al lavoratore passato alle dipendenze del cessionario e da questi retribuito spetta, comunque, il diritto a percepire dall'alienante la normale retribuzione senza possibilità di detrarre l'aliunde perceptum, ciò a prescindere dalle vicende inerenti al rapporto di lavoro proseguito, di fatto, con il cessionario. E' questo il principio ribadito dalla Corte di cassazione con l'ordinanza 39148/2021 del 9 dicembre scorso.
Il caso riguardava, infatti, un lavoratore che, pur impugnando la cessione del ramo d'azienda e mettendo in mora il datore di lavoro cedente, aveva proseguito di fatto il rapporto di lavoro con l'impresa cessionaria fino alla risoluzione consensuale del medesimo nell'ambito di una transazione.
Nonostante fosse stata dichiarata in un separato giudizio la nullità della cessione del ramo d'azienda, il Tribunale di Roma dichiarava inammissibili le pretese del lavoratore volte a ottenere le retribuzioni medio tempore maturate nei confronti dell'impresa cedente proprio alla luce dell'intervenuta risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sottoscritta con la cessionaria, risoluzione considerata idonea a far venir meno l'“unico rapporto” intercorrente tra cedente, cessionaria e lavoratore.
La Corte d'appello di Roma riteneva, invece, che la transazione sottoscritta non producesse effetti anche nei confronti del cedente, il quale rimaneva pertanto tenuto al risarcimento dei danni sofferti dal lavoratore.
La Suprema corte, chiamata in causa sul punto, si è discostata dal precedente orientamento giurisprudenziale che escludeva il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nell'ipotesi in cui fosse intervenuta, a seguito della sottoscrizione di un accordo transattivo, l'estinzione del rapporto di lavoro proseguito di fatto con il cessionario (si veda, fra le altre, Cassazione n. 9803/2015).
Ad avviso dell'ordinanza in commento, infatti, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro proseguito con il cessionario deve considerarsi “res inter alios acta”, dovendosi escludere – considerata anche la nullità della cessione del ramo d'azienda – che tra cedente, cessionario e lavoratore intercorra un inscindibile rapporto plurisoggettivo. La risoluzione del rapporto con il cessionario non può comportare, pertanto, il venir meno del diverso rapporto di lavoro ancora in essere con il cedente e della relativa obbligazione retributiva.
Secondo il più recente orientamento che si è andato sviluppando all'indomani della sentenza n. 2990/2018 delle Sezioni Unite in punto di effetti della messa in mora del datore di lavoro, la natura dell'obbligazione pecuniaria a carico del cedente, che scaturisce dall'accertamento giudiziale dell'insussistenza dei requisiti di cui all'articolo 2112 del Codice civile e dalla mora credendi, ha natura retributiva (e non risarcitoria). Questo comporta che le retribuzioni corrisposte dal cessionario che abbia utilizzato di fatto le prestazioni del lavoratore successivamente alla messa in mora dell'alienante non producono un effetto estintivo dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa si veda, fra le altre, Cassazione n. 29092/2019).
L'ordinanza in commento consolida il richiamato e più recente filone giurisprudenziale che, sulla scorta del “diritto vivente” sopravvenuto, offre un'interpretazione costituzionalmente orientata del quadro normativo (cfr. anche Corte costituzionale, sentenza n. 29/2019), riconoscendo in via generale l'obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore non riammesso in servizio neppure dopo una sentenza che abbia ripristinato la vigenza dell'originario rapporto di lavoro.

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