Contenzioso

L’insussistenza del fatto non deve essere manifesta

di Angelo Zambelli

Con la sentenza 125/2022 depositata ieri, relativa all’articolo 18, comma 7 della legge 300/1970, secondo periodo, la Corte costituzionale ha ritenuto incostituzionale l’inciso “manifesta”, rispetto all’elemento dell’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La disposizione censurata era stata introdotta con la legge 92/2012 (riforma Fornero), con l’obiettivo di adeguare la disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e di ridistribuire «in modo più equo le tutele per l’impiego», accordando ai lavoratori illegittimamente licenziati un apparato di tutele estremamente diversificato (di qui forse una certa farraginosità normativa) in relazione alla gravità del vizio rilevato.

Ciò posto, la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata nel corso di un giudizio di opposizione avverso un’ordinanza di reintegrazione di un lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo. Tra i vari motivi di illegittimità formulati dal giudice remittente è stata accolta, in particolare, la censura di indeterminatezza e irragionevolezza del quid pluris, rappresentato dalla dimostrazione dell’insussistenza «manifesta» del fatto stesso posto a base del licenziamento per disporre la reintegrazione. Più volte avevamo sottolineato in passato l’evanescenza di tale caratteristica che, infatti, la giurisprudenza di merito ha interpretato nel tempo in maniera ondivaga e imprevedibile.

La Corte costituzionale ha accolto le eccezioni sollevate, rilevando come il presupposto di legge che accorda la tutela reintegratoria nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento per motivi economici, non avrebbe in realtà racchiuso alcun criterio oggettivo idoneo a chiarirne la portata. Ciò, in violazione dei principi costituzionali per cui al lavoratore illegittimamente espulso deve essere riservata una tutela adeguata che il giudice è chiamato ad applicare sulla base delle indispensabili indicazioni fornite dalla legge.

È stato invece rilevato come il criterio prescelto dal legislatore si presterebbe a incertezze applicative che possono condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento, poiché il requisito della «manifesta» insussistenza demanderebbe al giudice una valutazione «non sorretta da alcun criterio direttivo, privo di un plausibile fondamento empirico».

Inoltre, è stato riconosciuto come il giudizio di sussistenza di un fatto non possa prestarsi «a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, evocando piuttosto una alternativa netta» ove il giudice dovrebbe pronunciarsi «in termini positivi o negativi».

Oltre a ciò, secondo la Consulta, il presupposto in esame non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento, che non può essere ritenuto più grave solo perché l’insussistenza del fatto sarebbe più agevole da accertare in giudizio, posto che dal tenore letterale della norma sarebbe applicabile la reintegrazione solo in caso di accertamento prima facie dell’insussistenza del fatto: forse su questo argomentare si potrebbe discutere, ma tant’è.

La pronuncia certamente semplifica e sembra voler porre fine ai numerosi dubbi interpretativi circa l’effettiva portata di questa locuzione, foriera di fondati dubbi di tenuta sistematica: non a caso la Corte segnala come tale locuzione fosse entrata in tensione con un ordinamento che sul “fatto” basa la protezione del lavoratore.

Espunto dall’ordinamento il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto, sorge spontaneo domandarsi quali siano le ipotesi (a questo punto davvero residuali) in cui sarebbe applicabile la tutela indennitaria, posto che in tutte le ipotesi in cui non venga dimostrato il motivo oggettivo, il lavoratore licenziato avrà ormai diritto a essere reintegrato.

La Consulta accenna all’ipotesi di violazione delle clausole di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore, criteri di scelta importati dal licenziamento collettivo nel licenziamento individuale per opera giurisprudenziale: certo che viene da dire, ove non poté il legislatore poté il giudice.

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