Contrattazione

Naspi e contributi, incentivi alle intese su esodi volontari

di Giorgio Pogliotti e Claudio Tucci

Introdotti nel dl Agosto come misura “compensativa” al proseguimento del blocco dei licenziamenti per motivi economici, gli accordi aziendali di risoluzione volontaria dei rapporti di lavoro, incentivati con il riconoscimento della Naspi, sono diventati un modello di riferimento per tante imprese che li stanno utilizzando, d’accordo con il sindacato, in alternativa ai licenziamenti collettivi disciplinati dalla legge 223 del 1991.

Lo strumento, rinnovato, con il decreto Sostegni di marzo, articolo 8, comma 11, in parallelo alla nuova proroga del divieto di licenziamento (fino al 30 giugno per industria e costruzioni, fino al 31 ottobre per il terziario) è molto semplice. Fatto l’accordo tra datore di lavoro e sindacato comparativamente più rappresentativo a livello nazionale (non valgono perciò Rsa o Rsu interne) - senza dover aggiungere una dichiarazione di esubero di personale - è consentita la risoluzione volontaria del rapporto di lavoro per agevolare così l’esodo di quei lavoratori che dichiarino di non opporsi al loro licenziamento per conseguire la Naspi, spesso integrata da incentivi economici pagati dalla stessa impresa. Il lavoratore che accetta, volontariamente, di uscire dalla propria azienda può ottenere fino a 24 mesi di indennità di disoccupazione (25mila euro al massimo) e ha per due anni i contributi pagati. Se la persona ha più di 30 anni, percependo la Naspi, può essere assunto da un’altra impresa con l’apprendistato. Se la persona poi vuole mettersi in proprio, aprendo un’attività, può riscattare per intero la Naspi. Per il datore di lavoro il vantaggio della procedura è evidente rispetto al licenziamento collettivo: si possono fare nuove assunzioni e non c’è bisogno di rispettare la normativa sul preavviso. Si paga un ticket per il licenziamento, ma di importo più contenuto.

Non è la prima volta che il Legislatore introduce accordi aziendali prodromici alla risoluzione volontaria dei rapporti di lavoro, in alternativa agli atti di recesso collettivi. La legge Fornero del 2012 (articolo 4) ha introdotto una misura limitata ai lavoratori a ridosso della pensione (4 anni, poi divenuti 7) che si è rivelata piuttosto onerosa per l’azienda. Poi c’è il contratto di espansione, con un campo d’applicazione limitato ai lavoratori a 5 anni dalla pensione (si sta ragionando di abbassare a 100-150 addetti la soglia dimensionale, al momento fissata sopra i 250). A differenza di questi strumenti, gli accordi aziendali ex articolo 8, comma 11, del dl 41 del 2021, non prevedono condizioni d’accesso, né paletti, quindi riguardano tutti i lavoratori, anche quelli di età centrale (40-50 anni). Per queste ragioni, secondo gli esperti, è importante che la norma sugli accordi aziendali rimanga, anche quando terminerà il blocco dei licenziamenti, per accompagnare datori e lavoratori a gestire, al meglio, l’uscita dalle misure emergenziali. «In queste procedure sussiste una sorta di interesse pubblico nell’incoraggiare il lavoratore ad accettare la perdita del posto di lavoro - spiega Sandro Mainardi, ordinario di diritto del Lavoro all’università di Bologna, da 20 anni big della consulenza alle imprese -. Lo scopo è agevolare le ristrutturazioni aziendali e deflazionare il contenzioso giudiziario in tema di licenziamenti. Ciò vale tantopiù per le ristrutturazioni concordate con le parti sociali. Sicché l’articolo 8, comma 11 meriterebbe un’esplicita conferma a regime da parte del legislatore in sede di conversione del dl 41/2021, benché, a ben vedere, già la sua attuale formulazione appaia non necessariamente legata alla normativa lavoristica emergenziale e dunque alla permanenza (o meno) del blocco dei licenziamenti».

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