Contrattazione

Lo smart working rimarrà per 4,3 milioni di addetti

di Cristina Casadei

Nel post pandemia ci saranno 4 milioni e 380mila smart worker che lavoreranno in maniera ibrida, in parte in presenza e in parte da remoto. Ben oltre 7 volte in più della normalità pre Covid, quando erano appena 570mila. Le previsioni dell’Osservatorio Smart working del Politecnico di Milano e i numeri degli ultimi trimestri ci dicono che «l’esperienza della pandemia ha fatto evolvere i modelli di organizzazione del lavoro e cambiato le attese di imprese e lavoratori, che hanno potuto toccare con mano i vantaggi di modelli più flessibili e intelligenti - spiega il responsabile scientifico, Mariano Corso -. Lo smart working rappresenta ormai un trend inarrestabile, anche se assistiamo a dinamiche differenziate, a seconda del tipo di organizzazioni».

Dal picco pandemico a oggi

Nel picco pandemico, a marzo del 2020, il nostro paese ha avuto sei milioni e 580mila persone che hanno lavorato interamente, o in parte, da remoto. Un milione e 850mila nella Pa, 1,5 milioni nelle micro imprese, un milione e 130mila nelle Pmi e 2 milioni e 110mila nelle grandi aziende. Questo numero si è ridotto in settembre 2020, quando è iniziato un parziale ritorno in presenza che, però, è stato scoraggiato dal peggioramento dei dati sanitari. Mentre è in corso il tavolo ministeriale (si veda altro pezzo a pagina 6), oggi si può dire che sono poco più di 4 milioni gli smart worker e che nel post emergenza saranno 4 milioni e 380mila, dicono i dati dell’Osservatorio. Il loro numero, nella Pa, si ridurrà a poco più di un terzo rispetto al picco pandemico, nelle microimprese ci sarà mezzo milione di smart worker in meno, nelle Pmi 430mila. Nelle grandi imprese il loro numero diminuirà solo di 80mila.

Progetti più strutturati

Dall’inizio della pandemia la totalità delle grandi imprese, il 62% delle Pmi e il 98% della Pa ha permesso ad almeno una parte della popolazione aziendale di lavorare da remoto. In maniera strutturata? Sì nell’81% delle grandi imprese, in quasi una Pmi su 2 (53%) e nel 67% della Pa. Sono queste percentuali che mostrano una forte crescita del fenomeno rispetto al periodo pre pandemico. Tra le grandi imprese che hanno definito o stanno definendo un progetto di smart working, il 40% dice che non era presente prima della pandemia che ha rappresentato l’occasione per introdurlo. Nelle grandi imprese il lavoro da remoto continua ad essere ampiamente diffuso, con una media di oltre 4 giorni alla settimana, mentre sono in crescita modelli ibridi più equilibrati, con il lavoro che viene svolto per 2 giorni in presenza e per 3 da remoto. Questo ha portato a una revisione degli spazi di lavoro a cui hanno messo mano il 55% delle grandi organizzazioni e il 25% delle Pa, con l’obiettivo di adattarli al nuovo modo di lavorare. La maggior parte non varierà la loro dimensione ma ne modificherà il layout per adeguare gli ambienti alle nuove esigenze lavorative. Il 33% delle grandi realtà, invece, ridurrà gli spazi e il 18% della Pa li amplierà.

I lavoratori

Se andiamo a vedere il punto di vista dei lavoratori, uno su 3 di un campione di oltre mille lavoratori, dichiara un miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza nel lavoro, il 39% riesce a conciliare meglio vita e lavoro, mentre il 22% parla di un peggioramento. Il nuovo modo di lavorare ha sicuramente migliorato la conciliazione tra vita e lavoro, come emerge nell’89% delle grandi imprese, nel 55% delle Pmi e nell’82% delle Pa. Al contrario è peggiorata la comunicazione fra colleghi, come dice il 55% delle grandi imprese, il 44% delle Pmi e il 48% delle Pa. Il contesto pandemico ha avuto un impatto molto forte sull’engagement dei lavoratori nel 2021: la percentuale di persone che si dicono ingaggiate è infatti passata dal 12% del 2020 al 7% del 2021. Il protrarsi dell’emergenza ha inoltre accentuato anche la diffusione del tecnostress e dell’overworking.

Dinamiche del post pandemia

A un anno e mezzo dall’inizio della pandemia l’associazione tra smart working e lavoro da remoto deve però essere superata. «Lo smart working, quello “vero” non può essere certo ridotto al lavoro da remoto emergenziale della pandemia - spiega Corso -. È uno strumento di innovazione e modernizzazione che spinge a un ripensamento dei processi e dei sistemi manageriali all’insegna della flessibilità e della meritocrazia, proponendo ai lavoratori una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati». Per il futuro, grandi imprese e lavoratori guardano non tanto a un ritorno al passato, ma a un equilibrio ibrido che sia sostenibile. Su questo, però, pesa molto la differenza tra pubblico e privato e la dimensione d’impresa. I dati dell’Osservatorio ci dicono che nell’89% delle grandi imprese, nel 35% delle Pmi e nel 62% delle Pa lo smart working sarà una pratica presente all’interno dell’organizzazione anche nel post pandemia. «Le grandi realtà stanno consolidando ed estendendo i modelli sperimentati in emergenza, con un equilibrio tra lavoro da remoto e in ufficio, per cogliere appieno i benefici potenziali», dice Corso. Al contrario «in molte Pmi e Pa si sta tornando prevalentemente al lavoro in presenza, riproponendo schemi passati, per la sostanziale assenza di cultura basata sul raggiungimento dei risultati - sottolinea Corso -. Un arretramento che si scontra con le aspettative dei lavoratori e gli obiettivi di digitalizzazione, sostenibilità e inclusività del nostro Paese».

Sotto la lente

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