Contrattazione

Andare oltre lo smart working conviene a tutti

di Andrea Gangemi e Tabita Costantino

Secondo i dati del Bureau of Labor Statistics, negli Stati Uniti a settembre circa 4,4 milioni di lavoratori hanno lasciato volontariamente il proprio posto. Ad agosto lo avevano fatto in 4,3 milioni. A motivare la Great Resignation sarebbe la ricerca di una maggiore flessibilità e di impieghi più appaganti, non necessariamente con un salario maggiore.

Un fenomeno comparabile (ma non necessariamente sovrapponibile) sembra essersi verificato in Italia: i numeri pubblicati dal ministero del Lavoro mostrano che nel secondo trimestre del 2021, su un totale di 2,5 milioni di contratti conclusi, 484mila cessazioni sono avvenute a iniziativa dei dipendenti, nello specifico per dimissioni volontarie (+37% rispetto al trimestre precedente, +85% rispetto al secondo trimestre del 2020, +10% rispetto al secondo trimestre del 2019).

Come è noto, il mercato del lavoro italiano è molto meno dinamico rispetto a quello statunitense. Il dubbio è, dunque, se l’aumento delle dimissioni sia un fenomeno temporaneo, legato al riassestamento del mercato del lavoro una volta passata la fase pandemica più critica, o un trend destinato a protrarsi, quale generale segnale di riattivazione della mobilità in un mercato del lavoro che teme meno la ricollocazione dei singoli, anche in settori diversi. Nella prima ipotesi, un ruolo importante potrebbe averlo giocato il blocco dei licenziamenti, con possibili dimissioni “forzate”, o quantomeno incentivate, da parte dei datori di lavoro. Un incentivo che farebbe la differenza perché, allo stato, il dipendente che si dimette volontariamente non ha accesso alla indennità di disoccupazione.

Quel che è certo è che l’ultimo anno e mezzo ha avuto un effetto dirompente sul modo di pensare al lavoro. Il blocco forzato ha generato aspettative di flessibilità anche future tra i dipendenti. Oggi, è competitivo solo chi riesce ad attrarre talenti sempre più consapevoli del valore dell’autonomia in termini di spazio e di tempo di lavoro. Come realizzare questo obiettivo? Le aziende dovrebbero investire in piani di welfare e di progressione di carriera, formazione, attenzione alle inclinazioni personali.

Si tratta di un fenomeno che cela un’opportunità, tanto per le aziende che per i lavoratori, che il nostro Paese non deve lasciarsi sfuggire. Per favorirla, ci si aspetta che venga introdotta, nel contesto delle linee guida contenute nel protocollo appena firmato tra governo e parti sociali e per mezzo della contrattazione collettiva che adesso ha un ruolo importante, una disciplina sul cosiddetto hybrid working (figura più evoluta dello smart working o lavoro agile) adeguata a ogni settore produttivo. In tal modo, non solo si risponderebbe alle esigenze di chi cerca un miglior bilanciamento tra vita privata e lavoro, ma le aziende sarebbero nelle condizioni di poter agevolare questa nuova esigenza, con benefici a livello di costi e partecipazione della forza lavoro.

Con l’avvento della pandemia, il legislatore ha meramente de-regolato il lavoro agile, permettendone, a oggi, fino al 31 marzo 2022 lo svolgimento secondo una procedura semplificata che prescinde dall’accordo scritto tra le parti e necessita solo della comunicazione al ministero del Lavoro. Tuttavia, il lavoro da remoto in questo periodo si è svolto tendenzialmente presso l’abitazione dei lavoratori, avvicinandosi alla normativa più risalente del cosiddetto Telelavoro, che prevede che il datore di lavoro si occupi della fornitura e manutenzione di una postazione, che, seppur da remoto, rimane fissa. La nuova normativa dovrebbe, oltre che garantire maggiore flessibilità occuparsi di aspetti divenuti sempre più attuali, come la formazione erogata da remoto, la privacy e il controllo a distanza dei dipendenti, la cybersicurezza dell’azienda, di un diritto alla disconnessione che tenga conto anche di possibili esigenze dovute a diversi fusi orari e una chiara definizione degli aspetti normativi e contributivi anche nel caso il lavoro sia svolto dall’estero o, viceversa, in Italia da lavoratori di aziende straniere.

Una regolamentazione al passo con i tempi potrebbe rendere il nostro Paese, e non solo le grandi città, una realtà attraente dove collocare il proprio “luogo di lavoro”, facilitando l’obiettivo di creare un ambiente di lavoro più attraente, fugando i timori che il ritorno alla normalità debba coincidere con un peggioramento della qualità della vita del dipendente.

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