Contrattazione

Atenei, con i piani straordinari più promozioni che assunzioni

Mentre il totale del personale docente è rimasto più o meno ai livelli del 2010, la quota occupata da ordinari e associati nello stesso periodo è aumentata dal 54 al 68 per cento

di Alice Civera, Michele Meoli, Stefano Paleari

In questo ultimo scorcio di legislatura, e in piena attuazione delle iniziative Pnrr in materia di università e ricerca, il Parlamento ha scelto di modificare radicalmente i percorsi di carriera del personale docente e ricercatore. Vale dunque la pena fotografare la situazione attuale per quanto riguarda gli organici e la loro composizione e cosa è successo negli ultimi anni. Diciamo subito che la situazione desta preoccupazione. Partiamo da un dato: alla fine del 2021, il 68% del personale delle università statali era costituito da professori ordinari (26,2%) e associati (41,8%). Nel 2010 l’analoga percentuale era ferma al 54% (25% ordinari e 29% associati), a fronte sostanzialmente del medesimo numero di personale in ruolo.

Il resto del personale, nel 2010, era costituito dai ricercatori a tempo indeterminato, sostituiti con la riforma Gelmini dai ricercatori a tempo determinato, sia di “tipo a”, sia di “tipo b”. Questi ultimi, se in possesso di abilitazione scientifica nazionale (altra novità della legge del 2010), diventano normalmente professori associati a valle di una valutazione dell’università nella quale prestano servizio. Con la riforma del 2010, la trasformazione della figura di ricercatore è stata poi accompagnata dal cosiddetto “Piano straordinario associati”, che ha permesso a molti ricercatori a tempo indeterminato dell’epoca di diventare professori lasciando la categoria “in esaurimento”. Basti pensare che nel 2010 esistevano 23.800 ricercatori mentre oggi il loro numero si è ridotto oggi a meno di 6.000 (per lo più in età avanzata), affiancati dai nuovi ricercatori di tipo a e b.

Sempre alla fine del 2021, i ricercatori di tipo b costituivano il 9% del personale. Dal momento che questi tenderanno a diventare abbastanza presto associati avremo oltre il 70% del personale composto da professori associati e ordinari. Con i primi, in numero doppio dei secondi, che inizieranno a premere per fare il salto a ordinario.

Il boom di promozioni interne

Si pone quindi un problema generale: le risorse negli anni (i cosiddetti “punti organico” per le assunzioni di personale) hanno portato più alle promozioni interne che ad assunzioni di nuovi ricercatori. Non stupisce, e il blocco di scatti e stipendi nello stesso periodo, che ha determinato una svalutazione dei livelli stipendiali rispetto ai principali Paesi europei e non, ne ha offerto una nobile motivazione (l’unico modo per sbloccare lo stipendio, in assenza di strumenti flessibili di differenziazione, è stata la promozione di grado).

Calata sulle singole università, l’analisi mostra come sono state impiegate le risorse assegnate per il reclutamento, dal 2010 a oggi. Un periodo iniziato in piena crisi finanziaria per le università che ha imposto il 20% del turnover e che è proseguita fino al 2018, primo anno di ritorno a un turnover del 100 per cento. Alla fine del 2021, tra gli atenei statali, la quota di “ordinari” va da un minimo del 16% della Basilicata a un massimo del 34% di Roma Tre. Come si può osservare nel grafico accanto, la quota “ordinari + associati” va da un minimo del 58% all’università di Bari a un massimo del 76% sempre per Roma Tre. Questa differenziazione tra atenei è presente (anche per differenze nell’offerta formativa) nel rapporto studenti/docenti (tanto importante nei ranking) sostanzialmente invariato a livello di sistema nel decennio e intorno a 30. Ma con forti cambiamenti a livello di singolo ateneo.

La riflessione da fare

Questi numeri pongono una seria riflessione. Se è vero che ogni ricercatore opera per raggiungere (per merito) l’ordinariato come suo percorso di carriera, c’è da chiedersi se quanto sia avvenuto non sia in realtà un “cafè para todos” che circostanze esterne (i tagli del passato decennio e i blocchi stipendiali uniti alle rigidità salariali), meccanismi di carriera (abilitazioni scientifiche non sempre severe) e meccanismi di governance universitaria (votano gli interni, non i giovani che vogliono entrare) hanno per inerzia determinato.

Si presenta dunque un problema di equilibri e incentivi, di cui il Parlamento non può non tenere conto, proprio ora che sono in discussione i percorsi di carriera e, soprattutto, se ci si ferma a quelli. È difficile immaginare un’evoluzione che porti il nostro sistema a essere più competitivo se, insieme a una revisione della legge che riduca i tempi di accesso e il precariato, non si affiancano gli strumenti per differenziare le retribuzioni per i più meritevoli anche all’interno della stessa fascia e non solo per anzianità, come avviene ormai in tutto il mondo, anche in quello non anglosassone. Seguendo ovviamente procedure trasparenti, riconosciute dalla comunità scientifica internazionale e nel rispetto degli equilibri di bilancio delle singole università.

In questo senso, da ultimo, una riflessione sull’attualità ed efficacia del sistema dei “punti organico” per il reclutamento dei ricercatori e dei docenti non appare più rinviabile. Si pongano dei vincoli di virtù finanziaria, ma si aprano anche spazi di libertà. Altrimenti, l’attrattività del sistema, visto che i ricercatori competono sul mercato globale, sarà la prima vittima dell’inerzia sistemica. E proprio ora che, grazie al Pnrr e a una nuova sensibilità in materia di ricerca da parte del Governo, ci sono nuove e crescenti risorse per le università.

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