Previdenza

Formazione e politiche attive per cambiare volto al mercato del lavoro

di Carlo Carboni

Napoli è solo la quinta città al mondo per napoletani residenti: San Paolo, Buenos Aires, Rio de Janeiro e Sidney hanno più partenopei di Napoli, che precede New York in questa bizzarra classifica demografica. A spiegare la Napoli “globale”, si può citare un mercato del lavoro italiano caratterizzato nella lunga durata da un’abbondante offerta di lavoro. L’eccedenza di lavoro è una costante secolare che ha caratterizzato il nostro centro-sud e non solo. Contribuisce, con il fisco, a tenere bassi i salari interni. Nel tempo, non è stata trovata soluzione all’eccedenza di lavoro, se non la valvola di sfogo di una storica emigrazione funzionale. Solo le Americhe contano circa 80 milioni di oriundi italiani.

Nell’ultimo ventennio, i tentavi dei governi di “liberare” l’offerta di lavoro si sono risolti in ricuciture giuslavoriste, senza impatto significativo di crescita occupazionale; ma, senza questi atti legislativi, non sarebbe andata peggio? La sostanziale tenuta occupazionale in questi decenni economicamente avversi, oltre all’esplosione di forme d’occupazione “a tempo”, non è dovuta a questi atti di liberalizzazione? Più certo è che il riformismo giuslavorista si è mostrato tanto prolifico a normare quanto distante dall’affrontare i nodi strutturali del modello di sviluppo economico che influenzano i mercati del lavoro. In questi anni, è aumentato lo scollamento tra impianti normativi e necessità strutturali dell’economia e del lavoro. Sono rimaste aperte questioni mai risolte come il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, la produttività, la creazione d’occupazione decente, la riduzione della vulnerabilità e della disuguaglianza sociale. A parziale giustificazione di chi ci ha governato in questi anni, si può riconoscere che, prima del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), la coperta era corta per mancanza di risorse adeguate da investire; ma forse si sarebbe potuto far meglio della paralisi delle politiche attive, dell’ineguagliata inefficienza di alcuni centri per l’impiego, della vetusta tentazione all’assistenzialismo e al risarcimento comunque. Anche dello sterile braccio di ferro fra Stato e Regioni in tema di lavoro. Nel frattempo, gli italiani hanno continuato a emigrare per mancanza di lavoro o per uno migliore, mentre l’immigrazione ha iniziato a incidere tra gli outsider del nostro mercato del lavoro.

Dopo un ventennio in cui la politica ha sbandierato la centralità del lavoro, i risultati sono modesti in quanto a tassi d’occupazione e disoccupazione. Con il 63%, l’Italia ha il tasso di occupazione più basso d’Europa, dopo quello della Grecia, quasi 10% in meno della media Ue (72%), staccato da Germania (79%) e Francia (71%). Sicilia, Campania, Calabria e Puglia sono tra le aree europee con occupazione più bassa. Inoltre, c’è la variegata prateria di circa 14 milioni di inattivi (il 36% della popolazione 15-64 anni: record europeo), gonfiata da fenomeni di scoraggiamento e di lavoro “addizionale” (o di maggior benessere). Frattanto, il lavoro “a tempo” è aumentato: avanzano gig economy, smart working e nuovi “strani” professionisti. Il lavoro si è trasformato nel mondo dei lavori di cui parlava Aris Accornero oltre 25 anni fa. Disoccupazione e lavoro “a tempo”, colpendo la componente generazionale più qualificata del lavoro, i giovani, hanno raggiunto un punto critico, improduttivo. Nel ventennio 2001-2021 i giovani (14-34 anni) occupati sono diminuiti di 3 milioni. (Cito qualche conseguenza tra i giovani: inadeguatezza personale e disagio sociale, trasformazione del modo di vita, delle aspettative e della cultura del lavoro)

Di conseguenza, si parla di un mercato del lavoro complesso, i cui frammenti sono contenuti in due perimetri: uno che delimita i lavori con relative garanzie e uno che raccoglie i lavoratori outsider, il lavoro vaporizzato in cui milita il grosso dei working poor e dei giovani. Con laureati che, a volte, precipitano nel secondo perimetro, a pedalare per portare cibo, a pensare che si tratta di una soluzione temporanea e spesso, alla fine, si convincono che sia meglio emigrare: emigrazione dei nostri giovani a fronte dell’invecchiamento della popolazione. La tinta paradossale del nostro mercato del lavoro si sostanzia almeno di due altre asimmetrie particolari, del tutto italiane. La prima riguarda una dinamica avversa nella relazione tra occupazione, salari e produttività. Dal 2000, i salari sono cresciuti maggiormente non nei settori più produttivi (come prevede un mercato efficiente), ma nei settori in cui la produttività è cresciuta meno; così ha fatto anche l’occupazione. Il secondo paradosso consiste che, nell’epoca dei “robot mangialavoro”, la domanda di lavoro competente rimane spesso inevasa. È quanto meno bizzarro che un mercato, ricco di forza lavoro, presenti deficit d’offerta, in specie nel turismo, oltre che di competenze tecnologiche – un controsenso per le geometrie della società tecnologica. La disponibilità di offerta di tecnologie non è il solo motore della transizione al digitale: è di pari peso disporre di lavoratori variamente formati, qualificati e localizzati, capaci di abilitare le tecnologie. I nostri sistemi educativi e formativi devono costituire la “prima linea” della nostra resilienza.

Con gli investimenti del Pnrr, si è accesa la speranza di poter migliorare il mercato del lavoro. La struttura dell’economia italiana non è in grado di assorbire più lavoratori degli attuali senza significativi investimenti e innovazione, da cui dipendono produttività e occupazione (non è un problema di costo del lavoro). Dopo un ventennio di magri risultati, siamo in grado di stimolare la domanda di lavoro con risorse importanti per una trasformazione digitale. I mercati del lavoro accrescono capacità occupazionale non per il grado d’istituzionalizzazione delle relazioni industriali, ma per gli investimenti in sviluppo dell’economia e del lavoro. Le opportunità maggiori oggi si estendono dal digitale al lavoro nella sanità, nella sicurezza e nella difesa, nella formazione e nella trasformazione ambientale ed energetica. ll Pnrr, a esempio, sottolinea che la crescita delle rinnovabili e dell’efficienza energetica si assocerà a un aumento annuo del Pil stimato 0,5-0,6% e a una crescita occupazionale del 2,5-3 per cento. Per 3 assunti su 4, già nel 2021 sono state richieste competenze green (Tucci, Il Sole 25 aprile 2022). Non solo la domanda di lavoro verrà sollecitata con investimenti importanti, ma si potrà fare qualche passo concreto in tema di politiche attive (5 miliardi alle Regioni), investendo in formazione, nel rapporto scuola-lavoro e per l’incontro domanda-offerta di lavoro. Resta l’amarezza per un mancato taglio significativo del cuneo fiscale che avrebbe dato un po’ di respiro ai salari netti. Resta anche il citato dualismo del mercato del lavoro. Alesina e Giavazzi, 11 anni fa, proposero di smantellare il dualismo contrattuale, con «un contratto unico con protezioni e garanzie che crescono con l’anzianità nel posto di lavoro». Questo sarebbe tutt’oggi l’obiettivo da raggiungere con buona volontà e coraggio, per restituire ai giovani crescita dell’occupazione e certezze.

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