Rapporti di lavoro

Telecamere in azienda: la normativa italiana potrebbe garantire un più forte bilanciamento dei diritti

di Andrea Stanchi e Francesco Pedroni

Con la decisione del 17 ottobre 2019 (casi 1874/13 e 8567/13 L.R. e altri) la Grande Camera della Corte dei diritti dell’uomo di Starsburgo ha ritenuto che l’installazione di videocamere nascoste all’insaputa dei dipendenti non lede il diritto alla riservatezza dei lavoratori se questa attività è preordinata a verificare eventuali atti illeciti a danno dell’azienda. Il caso riguardava dipendenti di un supermercato spagnolo licenziati perché sorpresi tramite un sistema di videosorveglianza installato a loro insaputa dalla datrice di lavoro a sottrarre merce aziendale. Secondo i ricorrenti, la decisione con cui il datore di lavoro li aveva licenziati era basata su videosorveglianza attuata in violazione del loro diritto al rispetto della vita privata garantito dall'articolo 8 della Cedu, e i giudici nazionali erano venuti meno al loro obbligo di garantire l'effettiva tutela di tale diritto, avendo ammesso (in violazione dell'articolo 6 della Cedu) nel procedimento di impugnazione dei licenziamenti le registrazioni video ottenute dal datore di lavoro.

In particolare, la Corte ritiene che non vi sia stata alcuna violazione dell'articolo 8 della Cedu perchè il fondato sospetto di furto da parte dei dipendenti costituisce ragione giustificativa meritevole di tutela da parte dell'ordinamento e, quindi, giustifica la mancata informativa preventiva ai dipendenti circa l'installazione della videosorveglianza che risulta misura adottata dal datore di lavoro proporzionata al fine perseguito. Quindi: fondato sospetto, bilanciamento dei diritti (DPWP Opinion 8/2001 e 2/2002) e applicazione dei principi di Data privacy consentono anche il controllo occulto.


Nel sistema italiano, invece, l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, anche dopo la riforma del 2015, detta norme ulteriori che renderebbero differente la fattispecie. Infatti l’esigenza di tutela del patrimonio aziendale indicata nel primo comma assorbirebbe anche l’ipotesi decisa dalla Grande Camera. Quindi il datore che volesse procedere al controllo difensivo occulto dovrebbe adempiere preventivamente alla procedura (amministrativa o sindacale). È vero che esiste un orientamento penalistico che invece, ma ai soli fini della prova del reato, ritiene indifferente il rispetto dell’articolo 4 per l’utilizzo della prova acquisita (es. Cass. Pen. 20722/10; 33567/16). Ma essendo l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori una norma penalmente rilevante (e poi foriera di violazione della Privacy) non è possibile per l'imprenditore affidarsi a interpretazioni ondivaghe.


Sotto questo profilo, la normativa italiana, esaminata alla luce delle complesse riflessioni della sentenza della Cedu, mostra “la corda”, innanzitutto in termini di efficienza (da un lato condizionata dalla procedura sindacale o dall’altro da quella burocratica: quanto è effettiva la tempestività?). Anche in termini di bilanciamento dei diritti, quando il campo è sicurezza penale, la Cedu ha già ritenuto (KU vs. Finlandia) che la privacy cede, risultando più equa della normativa italiana modificata nel 2015 che oggi è certamente più rigida (occorre sempre la procedura del comma 1 dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori).
Insomma, riflettere sulla decisione della Grande Camera è una necessità indispensabile per migliorare l’effettività della tutela assicurata, che -come ricorda la Cedu - deve essere appunto “bilanciata” tra i diritti contrapposti. Allo stato, pare che la articolatissima disciplina della Privacy (nazionale e sovranazionale) offra spunti di miglioramento della normativa italiana (risultante paradossalmente meno equa da un lato e dall'altro).

Occorre tenere comunque conto del fatto che l’evoluzione tecnologica corre e non smetterà di farlo.

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