Rapporti di lavoro

La pandemia lascia il mal d’ufficio a un lavoratore su due

di Cristina Casadei

Nel dibattito su mercato del lavoro, buste paga, pensionamento, cassa integrazione, competenze, dimissioni, c’è un fenomeno laterale che sta emergendo con molta decisione e che è il risultato dell’incrocio tra tutti questi temi e la pandemia. È lo stress di cui, ormai, in Italia soffre quasi un lavoratore su due, stando al sondaggio Health on Demand, realizzato da MercerMarshBenefits a livello globale, dove sono stati coinvolti 14mila lavoratori. Di questi mille sono in Italia. Il sondaggio segue e rafforza quanto rilevato la scorsa estate da un’altra ricerca, sempre di MercerMarshBenefits, dove i risk manager e i direttori hr avevano sollevato il tema del rischio della salute mentale dei lavoratori per le imprese.

I dati globali ci dicono che nell’ultimo anno più della metà dei lavoratori a livello globale ha sofferto di stress, un quarto ha problemi di salute mentale come depressione o ansia, un quinto si trova in una condizione finanziaria peggiore e altrettanti dicono di essere fisicamente meno sani o in forma. L’Italia con il 49% di lavoratori stressati, si colloca in una posizione migliore rispetto a paesi come Stati Uniti (59%), India (59%), Cina (53%), ma peggiore rispetto alla region a cui appartiene, ossia l’Europa, dove in media sono il 42% i lavoratori che dicono di essere stressati. In Francia sono il 32%, in Olanda ancora meno.

Nel caso dell’Italia dove c’è una certa tendenza alla socializzazione e alla vita in comune al lavoro, l’isolamento e la solitudine causati dalla pandemia hanno sicuramente avuto un’incidenza, ma ci sono anche molti altri fattori che sono alla base dello stress: l’incertezza finanziaria e lavorativa e l’attenzione della propria azienda al benessere dei dipendenti. Marco Araldi, chief corporate officer del gruppo MarshMcLennan rileva che «nell’ultimo anno, l’atteggiamento verso la salute mentale, la sostenibilità e l’assistenza sanitaria è cambiato sostanzialmente. I datori di lavoro devono evolvere la loro strategia in tema di benefit per riflettere una forza lavoro moderna che dia priorità alla flessibilità, alla scelta, alla cultura dell’assistenza e al supporto degli strumenti digitali per la salute e il benessere. Occorre però un nuovo paradigma».

Questa necessità sembra particolarmente forte in Italia. A dirlo è anche il fatto che solo il 36% dei dipendenti italiani dichiara di essersi sentito aiutato dall’azienda, contro circa la metà dei lavoratori mondiali. Anche in presenza di un’offerta di benefit ampia e ricca. Questo dato evidenzia che l’offerta di benefit non è stata correttamente trasmessa e promossa internamente e, forse, non è più al passo con i tempi e non rispecchia le esigenze delle persone. Nella ricerca i problemi legati all’esaurimento mentale e fisico sono stati segnalati con maggiore frequenza da parte dei lavoratori con basso salario e con minore probabilità di sentirsi supportati dai propri datori di lavoro durante la pandemia. «Non c’è niente di più importante per la salute di un’azienda del benessere delle sue persone e delle comunità in cui l’azienda opera. Il Covid-19 ha messo alla prova il nostro sistema sanitario, ma il bisogno espresso da parte dei dipendenti di una maggiore tutela del proprio benessere fisico e mentale è uno dei risultati più importanti che emerge dal nostro sondaggio - spiega Marco Valerio Morelli, amministratore delegato di Mercer Italia -. La ricerca è chiara: i datori di lavoro che mettono la salute e la componente umana al centro della trasformazione aziendale creeranno una forza lavoro più energica e adattabile, in grado di resistere meglio nei periodi di crisi».

Se andiamo a vedere i temi della contrattazione di secondo livello, vediamo che gli ultimi 2 anni, che ci stiamo faticosamente lasciando alle spalle, sono stati assorbiti, nel dialogo tra le parti sociali, soprattutto dagli accordi sull’organizzazione del lavoro nella fase pandemica, sulla cassa integrazione e sulle crisi aziendali. Il benessere, il welfare, il miglioramento della previdenza complementare e dei fondi bilaterali, sono scivolati decisamente in secondo piano come emerge da molti osservatori, in primis quello dell’Ocsel della Cisl. Oggi si intravede però l’effetto che tutto questo ha avuto sulla tenuta psicologica dei lavoratori che devono fare i conti con stipendi che corrono meno dell’inflazione o sono stati ridotti dal ricorso alla cassa integrazione, hanno fatto un salto tecnologico, spesso senza essere stati adeguatamente formati, e sono appesantiti dall’incertezza del loro destino professionale e previdenziale.

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