Rapporti di lavoro

Dai redditi al welfare, l’ombra del voto sulle scelte per il lavoro

Reddito di cittadinanza e questione salariale, capitale umano e patto sociale non possono essere affrontati in ordinaria amministrazione

di Alberto Orioli

Da questa settimana Il Sole 24 Ore del Lunedì inaugura una serie estiva di pagine speciali dedicate agli scenari che si presenteranno alla ripresa in alcuni settori chiave. La serie prende il via con un focus sul lavoro. Seguiranno approfondimenti che vanno dal mercato immobiliare ai professionisti, dal fisco alla scuola all’economia. Una serie di analisi per capire il mondo che ritroveremo a settembre. Analisi che saranno necessariamente intrecciate anche con il percorso che ci separa dal voto.

Che sia da sempre tema straordinario lo dimostra l’impossibilità per il Governo Draghi di affrontarlo in questo finale di legislatura. Il lavoro non è un affare corrente da disbrigare come ordinaria amministrazione.

È materia strategica, divisiva, fondante innanzitutto per i partiti politici. E in questa fase di campagna elettorale torna centrale pur se con opposte visioni. Ad esempio sul futuro del reddito di cittadinanza da sempre osteggiato dalla destra e da Italia viva che ha proposto la sua abolizione con referendum.

Il lavoro ormai si associa al tema del salario: forse come mai da molti decenni il tema della retribuzione è tornato centrale. Non solo perché è tornata l’inflazione e l’incubo della tassa sulle classi più povere, ma perché la corretta remunerazione del lavoro è diventata urgenza sociale.

Causa scatenante sempre il reddito di cittadinanza che è diventato competitivo con i lavori a bassa qualifica e a basso stipendio, spesso svolti dai ragazzi in attesa di tempi migliori o nell’intervallo tra le sessioni di studio.

I 780 euro netti su cui - in teoria - può far conto oggi un ragazzo senza occupazione sono difficili da abbandonare in cambio di cifre simili guadagnate con occupazioni faticose e con poche prospettive.

Ed è qui che entra in gioco l’altro tema della campagna elettorale: il salario minimo. L’Europa lo chiede ai paesi membri, pur nella salvaguardia del ruolo della contrattazione laddove sia forte. È il caso dell’Italia, dove una storica tradizione di relazioni industriali ha consentito di gestire al meglio il tema dei contratti e dei salari anche durante la pandemia. La bozza di accordo del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, resta tale. L’idea di far coincidere il trattamento economico complessivo (tec) di una categoria con il salario minimo da applicare ai settori simili e ai lavori assimilabili non è stata un buon viatico. Anche perché avrebbe spostato verso l’alto l’asticella mediana di tutte le retribuzioni italiane senza alcun ancoraggio a scambi negoziali.

Il salario minimo avrebbe il compito di far salire le retribuzioni di quel mondo del lavoro grigio a partita Iva (magari fasulla), parasubordinato in mancanza di altro o semplicemente governato da contratti pirata creati da parti sociali compiacenti con il solo scopo di creare condizioni di concorrenza sleale.

Alcune simulazioni presentate a Draghi dalle parti sociali partivano da un salario mensile di riferimento di mille euro netti, con un valore superiore a quel 40% della mediana delle retribuzioni di tutti i contratti che in genere è il parametro usato per definire le soglie salariali.

Il tema però diventano i controlli. Chi controlla se un’azienda applica o no il salario minimo? Quasi nessuno dato l’esiguo drappello di ispettori del nuovo centro ispettivo del lavoro. Tuttavia esistono le dichiarazioni telematiche, le banche dati che ora Istat, Inps e Inail si apprestano a potenziare con un nuovo cervello unico. Ma per interpretare correttamente i dati si dovrebbe avere a mente un obiettivo strategico di semplificazione e di pulizia del mondo del lavoro border line, grigio, conosciuto alle autorità, ma non nei dettagli di evasione contributiva e fiscale. Per chiarezza si tratta di una parte dei lavori propri di certo mondo dei servizi, un settore-ombrello che copre molte cose spesso senza avvedersene.

Anche questi sono temi della campagna elettorale che tuttavia tende a semplificare, come sempre.

Sfumata l’occasione di un nuovo Patto sociale, che per il Governo Draghi avrebbe potuto avere il retroterra culturale dell’accordo del ’93 siglato dal Governo Ciampi, restano intatti i temi e gli obiettivi che un grande negoziato trilaterale (governo, imprese, sindacati) dovrebbe finalmente affrontare.

A partire dal cuneo fiscale, la distanza che oggi esiste tra costo del lavoro per l’imprenditore e retribuzione netta del lavoratore: il progetto da 18 miliardi presentato dalla Confindustria ha spaventato il Tesoro. Ma solo stanziando cifre d’impatto (al di là di quanto potrebbe essere previsto con il decreto aiuti bis) si avrà davvero la resa auspicata sulle buste paga.

Affrontare il tema significa poi prendere atto di quale debba essere la versione moderna del prelievo fiscale sul lavoro e come debba essere finanziato il sistema di welfare.

Se l’assegno unico, ad esempio, ha avuto un impatto importante sul sistema di welfare delle famiglie e ha di fatto creato una nuova misura di rango costituzionale, che va oltre la semplice assicurazione sui figli che era rappresentata dall’ex fondo Cuaf (Cassa unica per gli assegni familiari), lo stesso potrebbe accadere se finalmente le parti esaminassero le forme di finanziamento degli ammortizzatori sociali, i fondi bilaterali, i fondi previdenziali integrativi e, naturalmente, la riforma stessa della previdenza che sta bussando alle porte. Sono sistemi complicati per le semplificazioni di cui si nutre una campagna elettorale, ma in autunno il nuovo Governo non potrà non occuparsene, perché a fine anno scade la norma di transizione che il Governo Draghi aveva accettato di varare per evitare l'impatto di un ritorno alla legge Fornero con le pensioni a 67 anni.

L’agenda sociale è anche questo, ma non si sono sentiti finora programmi chiari sul tema pensioni. Si sente solo che l’agenda sociale è una priorità di tutti.

Così come lo è il lavoro. Che, per memoria, forse è bene ricordare come in Italia sia descritto anche da queste cifre: il 33% di chi lavora oggi ha la terza media; il 30% degli italiani è considerato analfabeta di ritorno perché non in grado di interagire con la digitalizzazione delle attività quotidiane, anche le più elementari.

Parlare di lavoro significa parlare di capitale umano. Ed è questa la vera rivoluzione di un’agenda sociale davvero degna di questo nome.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©