Rapporti di lavoro

Non vaccinati licenziabili solo se il proficuo impiego diventa impossibile

di Oronzo Mazzotta

Nel diritto nessuno ha le soluzioni facili in tasca; anzi bisogna diffidare di chi ritiene che la risposta a un determinato quesito sia un “sì” o un “no”. Quasi sempre la risposta è più prudentemente un “dipende”. Non si tratta di una posizione pilatesca, ma del rispetto dei vari interessi in gioco.

È quanto sta accadendo rispetto al tema di bruciante attualità relativo ai poteri di reazione di cui può disporre il datore di lavoro nei confronti di un lavoratore che rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19. Tema sul quale sembrano essersi formati due partiti contrapposti: uno favorevole all’adozione di provvedimenti disciplinari anche drastici, l’altro che cerca di operare distinzioni.

Certo, in materia il retroterra delle opinioni giuridiche è caricato dai tanti pregiudizi, nel senso letterale di giudizi precostituiti, che tutti noi abbiamo maturato nel lunghissimo, interminabile anno appena trascorso, sulla pandemia, sui suoi effetti e sui comportamenti – virtuosi o irresponsabili – dei nostri connazionali. Per non incorrere in fraintendimenti sulla mia posizione denuncio subito il mio pregiudizio: è non solo opportuno, ma anche doveroso per ciascun cittadino, vaccinarsi per rispetto di se stessi, dei propri cari e della comunità.

Ciò posto, il problema giuridico resta e risponde alla seguente domanda: in un contesto ordinamentale nel quale la vaccinazione non è obbligatoria, può il datore di lavoro imporla ai propri dipendenti per ragioni di sicurezza e conseguentemente sanzionare con il licenziamento per giusta causa chi non si adegua a tale disposizione? Chi risponde positivamente alla domanda invoca gli articoli 32 della Costituzione («nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge») e 2087 del Codice civile, che impone al datore di lavoro di «adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro» e stabilisce un nesso fra i due.

La legge che può autorizzare un trattamento sanitario obbligatorio sarebbe proprio l’articolo 2087. Purtroppo così non è, perché la «disposizione di legge» cui allude l’articolo 32 deve consistere in una normazione ad hoc, specificamente diretta a imporre la vaccinazione. D’altra parte è sì vero che il rispetto dell’obbligo previsto dall’articolo 2087 impone al datore di conformarsi al criterio della «massima sicurezza possibile», ma il rispetto di tale criterio è pur sempre ancorato a dati scientifici dedotti dall’«esperienza e la tecnica» e, nel nostro caso, poco o nulla si sa sul vaccino e i suoi effetti.

Certo, i rapporti di lavoro non sono tutti uguali. Ma questo semmai conferma che il giudizio sull’inadempimento del lavoratore deve essere necessariamente condotto sul piano del singolo rapporto; è un giudizio che va individualizzato. Ne deve conseguire che legittimamente un ospedale o una casa di cura privata possono pretendere la vaccinazione da medici e infermieri, anche perché sarebbero esposti a responsabilità risarcitoria nei confronti di chi, ricoverato per curarsi, abbia contratto il virus in conseguenza di un comportamento negligente di un dipendente. È evidente però che, con riferimento a tali specifici rapporti, la protezione della salute degli assistiti è proprio l’oggetto della prestazione richiesta agli addetti del settore.

Infine, una volta che, caso per caso e in relazione ai diversi “ambienti” lavorativi, si sia considerata esigibile la richiesta di vaccinazione, resta la questione della sanzione applicabile al comportamento deviante del lavoratore. Non è detto, infatti, che la più corretta reazione datoriale debba essere considerata il licenziamento. Intanto potrebbe esservi per il datore l’opzione di adibire il lavoratore, che abbia scelto di non vaccinarsi, a posizioni compatibili con tale scelta, in attuazione del suo potere direttivo.

Residuerebbe infine la possibilità di configurare il comportamento del lavoratore come un oggettivo impedimento alla prestazione di lavoro, in ragione di una impossibilità sopravvenuta. Ma anche così ragionando il licenziamento potrebbe non essere una conseguenza automatica. Il datore di lavoro dovrebbe sospendere il dipendente e procedere al suo licenziamento solo quando siano venute meno le condizioni di un suo proficuo impiego (cioè quando sussistano ragioni organizzative o produttive che lo autorizzino). La giurisprudenza, in caso di impedimenti oggettivi alla prestazione, si regola proprio così: opera un bilanciamento fra l’interesse del datore alla cessazione del rapporto e quello del lavoratore alla conservazione del posto. In una situazione di tale incertezza e su una materia così delicata, sarebbe auspicabile che intervenisse il legislatore, ma la politica purtroppo latita, forse perché ancora alle prese con il pallottoliere dei sondaggi.

Il dibattito su vaccino anti Covid-19 e lavoro è iniziato l’8 gennaio con un articolo di Giampiero Falasca, è proseguito con gli articoli del 12 gennaio a firma di Attilio Pavone e Aldo Bottini

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